Una scena dello spettacolo.

Giobbe e il "suo" inno alla Gioia

Davide, all'ultimo anno di liceo, è andato a vedere la messa in scena del testo di Fabrice Hadjadj: "Job - O la tortura degli amici". Molto più di un dramma teatrale: «C'è dentro un malessere che dà origine alla vita vera dell'uomo. Anche alla mia»

Sono andato a vedere Job - O la tortura degli amici al teatro Franco Parenti di Milano. Penso che lo spettacolo rappresenti il dramma di ognuno, o per lo meno il mio: questa "malattia" i cui sintomi sono l'infelicità e la nostalgia. Questo malessere che dà origine alla vita vera dell'uomo. Uomo che può scegliere se continuare a chiedere il bene, oppure cedere al male. Ed è sorprendente vedere la forza che ne scaturisce: io, così misero e debole, sono forte proprio grazie a questo limite. Cioè questa mancanza è parte fondamentale di me. Posso scegliere di nasconderla (facendo il male) e consolarmi con una qualche teoria sulla vita o un qualche illusorio amore. Oppure posso tenerla stretta e riconoscere ciò su cui regge la mia vita, così come Job si tiene stretto al suo letto.
Job non è l'eroe umano, né il prescelto. Anche lui cade, e Dio non lo predilige su tutti, semplicemente lo chiama, come fa con ognuno di noi. Mi sorprende il ruolo di Dio: in apparenza assente, finché d'improvviso lo si riconosce nel fascio di luce, presente tutto lo spettacolo sul letto del protagonista. Quando Job cede all'amore dell'infermiera e si fa sovrastare dalle lusinghe di Satana ecco che Dio lo richiama al suo stato, alla sua malattia; solo allora ci si accorge che Lui c'è sempre stato. «Io ti lascio la tua fragilità perchè sia la circostanza privilegiata della memoria di Me» (don Giussani).
Questa mancanza non genera il ricordo di una gioia passata, ma la memoria di una gioia presente, tuttavia non ancora coglibile. Ed è a lei che Job dedica il suo ultimo monologo: «O gioia sai bene che se grido così forte, è per causa tua, perchè sento ancora la tua chiamata». Questa Gioia c'è... e chiama costantemente.
Davide, Milano