Sul sentiero per la Cascata di Cenghen (Lecco)

«Ci dà speranza il fatto che non siamo soli»

Li avevano accolti appena arrivati dall'Ucraina. Poi il tempo passa, le ultime settimane di scuola... Così i giessini di Monza organizzano una gita con quel gruppo di profughi. Si cammina, si canta, c'è chi racconta la propria storia

Sono passati tre mesi da quel martedì mattina quando, per la prima volta, un pullman fece scendere i primi profughi dall’Ucraina davanti al parco della nostra scuola a Monza. Quell’incontro «che ci ha fatto conoscere faccia a faccia questa drammatica realtà che a noi sembra così lontana… E ho proprio sentito un vuoto dentro, una tristezza indescrivibile, una fragilità…», come raccontava Bea al raggio (l’incontro periodico dei ragazzi di Gioventù Studentesca, ndr). Abbiamo quindi fatto la risottata con i nostri ragazzi, per raccogliere i fondi per l’Ucraina, accolto un altro pullman, altre mamme e bambini.

Poi la scuola con il suo rush finale, le notizie sulla guerra che passano sempre più in secondo piano, ma quelle facce ferite non abbiamo potuto dimenticarle.
Ci troviamo, con i ragazzi di GS di Monza, con Stefano, l’amico universitario che era andato in Polonia a prendere i profughi e portarli in Italia, per pensare a qualcosa.
«Proponiamo una bella gita, condividiamo semplicemente il nostro tempo con loro», dicono i ragazzi. Certo, è una cosa piccola e semplice, ma pronti-via: chi pensa alla meta, chi ai canti, chi ai giochi. Riprendiamo i contatti e lanciamo un invito: «Buongiorno a tutti, sono Stefano, uno dei ragazzi che vi ha accompagnato nel vostro viaggio qui in Italia. Spero vi stiate ambientando bene e che abbiate trovato un po’ di pace in queste settimane! Vi scrivo perché io e gli altri ragazzi che ci hanno accolto al vostro arrivo in Italia vorremmo incontrarvi ancora per condividere del tempo insieme. Non vogliamo perdere l’occasione di avervi incontrato che ci è capitata».

Rispondono in una decina: tre mamme con i loro bambini, un’altra mamma col figlio adolescente e tre ragazze universitarie. Hanno detto sì, che bello!
Arriva il giorno della gita e siamo lì alla stazione di Monza: le mamme, le ragazze, i bambini, Stefano e due suoi amici universitari, i ragazzi della nostra piccola comunità di GS di Monza… e una strana attesa.
Dopo i saluti, le presentazioni, saliamo sul treno per Abbadia Lariana un po’ in silenzio, un po’ in imbarazzo. Sarà la lingua, sarà che è mattina presto… Si arriva, l’Angelus alla fontana di Linzanico e ci si incammina sul sentiero per la Cascata di Cenghen. Il silenzio comincia a essere rotto dal semplice esser lì, insieme, a condividere quel pezzo di strada che ci è donato.
L’arrivo alla cascata, i giochi dei bambini, il pranzo raccolti sotto il fiotto dell’acqua, con Ema (un mio alunno di terza) che ci racconta, stupito, come facendo il Pcto (nuovo nome per l’alternanza scuola-lavoro) gli sia si sia chiarito che cosa vorrebbe fare “da grande”: studiare per poter aiutare chi è più in difficoltà nel rapporto con gli altri e con la realtà.

In fondo è la bellezza del servire, un po’ come stiamo facendo in questo momento, gli uni per gli altri.
Comincia a fare un po’ freddo e allora scendiamo di qualche decina di metri per trovare un bel prato dove cantare. Partono le mamme ucraine che ci chiedono Toto Cutugno. Con un po’ di imbarazzo la generazione rap/trap acconsente e così iniziamo: Cutugno, Modugno, Celentano, Battisti… «E voi? Dai, fatecene una vostra!». Cantano Vachteram, la storia di un amore difficile, carica di una struggente nostalgia.

È l’occasione per aprire il dialogo: «Volete raccontare?». «Sì», incomincia Yana, studentessa di lingue che ci fa anche da interprete: «Perché siamo qui e non ci lamentiamo? Perché non diciamo che la vita fa schifo? Perché abbiamo appena cantato insieme».
«È vero, la vita non fa schifo, c’è speranza», le fa eco Eugenia, una mamma: «Per me la speranza è la certezza che il Signore, che ci ama, fa sì che la realtà serva sempre a qualcosa. Quindi mi fido e dico che ci sto».
«Io vivo con la speranza di tornare indietro», dice Katia: «Qui ci hanno accolto bene, ma abito in una casa che non è mia. Cerco un lavoro, faccio le pulizie, mentre a casa ero una personal trainer. Mia mamma, mio marito e mia sorella sono in Ucraina e spero di rivederli il prima possibile. So che tutto ci è dato per imparare qualcosa e io posso farcela perché con me c’è Natalia che mi è amica».

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Riprende Yana: «Oggi mi ha colpito il vostro desiderio di comunicare con noi», dice rivolgendosi ai ragazzi, «mi colpisce che pur essendo così giovani avete il desiderio di starci vicino. Stare qui tutti insieme non è scontato, perché vorremmo sempre fare da soli. E invece ci dà speranza il fatto che non siamo soli. Gesù lo trovo qui, tra di noi. Mi accorgo che mi vuole bene perché mi manda sempre persone come voi. Io e Irina facevamo la stessa università in Ucraina e non ci conoscevamo. Invece adesso siamo qui con voi: un miracolo».
Paula, giessina di quarta, commossa ringrazia: «Posso tornare a casa guardando con gratitudine quello che ho davanti, che spesso do per scontato e che invece mi è donato».
Ripartiamo: ci aspetta don Simone per la messa. «Oggi è la festa della Trinità», dice nell’omelia: «L’annuncio che Dio è uno, ma non è solo, è comunione». Quella comunione di cui oggi abbiamo fatto esperienza.
Manca un’ora al treno e il pontile è lì che ci chiama… ci tuffiamo in acqua. «Buttatevi nella vita», ci aveva detto papa Francesco il 18 aprile a Roma, e ai saluti le facce sono tutte diverse rispetto al mattino: la gita è finita, la scuola è finita, ma la nostra amicizia continua.

Stefano, Monza