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Fine scuola. L'abbraccio sicuro

Chiuso l'anno scolastico, tempo di esami o di vacanze. Ma c'è spazio anche per riguardare a quello che è accaduto tra i banchi. Come raccontano questi tre episodi

Il messaggio
A un incontro degli insegnanti del movimento, ho raccontato del mio disagio perché il dirigente della mia scuola chiede a docenti e personale Ata di non avere rapporti di empatia né tra noi né con gli alunni. «Dice don Giussani: “Le circostanze in cui Dio ci fa passare sono un fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione”», mi ha incalzato Francesco Barberis (responsabile del Cle) e ha aggiunto: «Anche se non cambierà alcun collega e il dirigente, tu avrai già vinto. Perché “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio” è il modo che Italo Calvino indica per non “appartenere” all’inferno». E così ho continuato a “stare” nei rapporti sorti con alcuni alunni, personale Ata e docenti. Un giorno, nell’ora di ricevimento, è venuta a colloquio la madre di una mia alunna, che mi ha chiesto come avevo fatto ad aiutare la figlia ad uscire dal tunnel nel quale si era trovata. In un primo momento ho creduto che, in qualche modo, volesse rimproverarmi degli inviti rivolti alla ragazza a partecipare a passeggiate, organizzate da me e da alcuni miei amici insegnanti del movimento. Invece poi ho capito che mi era grata. E così ho scoperto, senza troppi intellettualismi, che sono grata anche io di questa realtà scolastica che mi trovo a vivere mio malgrado. Pochi giorni dopo, ho saputo di non aver avuto l’agognato trasferimento. Questa notizia mi ha rattristato notevolmente. Ma poi mi è arrivato da quella alunna questo messaggio: «Vi ringrazio perché siete l’unico rifugio in cui le paure, le difficoltà, i momenti negativi risultano superabili. Un abbraccio sa essere casa: la più bella, fatta di cuori e non di mattoni. Un abbraccio sa essere quiete tra cento, mille giudizi, sa essere certezza di quel posto sicuro che ci sarà a prescindere da tutto. Mi avete insegnato con i vostri occhi a guardarmi realmente».
Lettera firmata


Vale sempre la pena
Supplenza in una quinta superiore. I ragazzi li conosco perché sono stati miei alunni negli anni precedenti. In classe mi prendono in giro, sono strafottenti e anche fra di loro vince una stupida istintività. Decido comunque di portarli in palestra, educazione motoria è il mio insegnamento, e pur sapendo che vogliono giocare a calcio imposto la rete di pallavolo perché so, per esperienza, che finirebbe in litigio. Giocano male apposta, prepotenti e infantili nel chiedere di continuo fare una partitella a calcio. Cedo nell’ultimo quanto d’ora e accade come previsto.
Sono delusa e dispiaciuta e decido di concludere la lezione raccomandando di fare una buona maturità e dichiarando che anche se il mio collega fosse sparito dalla faccia della terra mai più avrei accettato una supplenza nella loro classe e mi congedo. Anche nei giorni successivi fatico a salutarli perché sono proprio risentita.
Questa cosa però non mi lascia tranquilla. Continuo a non capacitarmi di aver detto loro quelle cose. Non è il mio modo di guardare i ragazzi, di solito rilancio. E non è il modo con cui sono guardata io. Ripenso al Volantone di Pasqua, quella provocazione sul ricominciare che è come risorgere…Che vergogna, ma come ho potuto?
In corridoio incontro tre di loro, quelli con cui ho più rapporto, gli dico che ho sbagliato, aggiungendo: «Non solo con voi… ma con tutta la classe».
Il mio collega deve di nuovo essere sostituito. Quando gli comunicano che sarei stata ancora io a supplire, i ragazzi dicono al preside che sicuramente non sarei andata. È la mia occasione, la possibilità di non tradire quello che ho incontrato. Mi aspettano seduti e in silenzio.
«Buongiorno ragazzi, ho pensato a quello che vi ho detto e mi devo scusare, perché a nessuno si può dire che non vale più la pena. Credo che se non è a scuola il luogo dove si può sempre ricominciare, dove altro lo si può fare? E allora sono qui, a lavorare con voi, di nuovo, e voglio guardarvi così. Ma non mi trattate male, perché questo non sarà comunque tollerato».
Sono ripartita e loro con me. Hanno litigato giocando a calcio, si sono comunque insultati, ma ho percepito uno sguardo nuovo, che continuo a chiamare “riguardo”, sì, con riguardo, come in punta di piedi. Io inchinata davanti a Chi mi fa e loro davanti a un giudizio comunque liberante, da qualsiasi punto di vista lo si guardi.
E vedersi in corridoio dopo non è stato più lo stesso!
Daniela, Buccinasco

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Il punto focale
A giugno ho svolto l’esame per la conclusione del percorso di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore. Al mattino, c’è stata la parte pratica di modellazione 2D e 3D, mentre al pomeriggio il colloquio orale. Dovevo raccontare semplicemente chi sono, cosa ho fatto in questi anni di scuola professionale e cosa voglio fare nel mio futuro. Una cosa molto semplice. Stranamente ero molto tranquillo. All’inizio, ho notato la commissione era un po’ disinteressata alle mie parole probabilmente per la stanchezza di una giornata piena di lavoro, ma nel momento in cui ho cominciato a raccontare della caritativa i loro occhi si sono spalancati.
Osservandoli mi sono chiesto, perché in un colloquio nel quale dovrebbe interessare più il lato professionale, loro si svegliano quando parlo di me e della caritativa. Non ho ancora una risposta a questa domanda.
Comunque, ho iniziato a parlare di cosa fosse per me la caritativa, e quello che facciamo: far studiare i bambini delle elementari nell’oratorio di San Giuseppe; far giocare i bimbi di Cometa una volta al mese mentre i genitori hanno degli incontri; dare una mano ad una nostra amica che fa la catechista, la giornata trascorsa in Emilia a spalare e a comporre i pacchi di prima necessità; il Banco Alimentare.
Ho mostrato due slide riguardanti questi gesti, e assieme alle immagini anche lo scopo preso da Il senso della caritativa: «Innanzitutto la natura nostra ci dà l’esigenza di interessarci degli altri. Quando c’è qualcosa di bello in noi, noi ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri. Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell’esistenza. Noi andiamo in “caritativa” per soddisfare questa esigenza».
Alla fine, mi hanno detto che avevo centrato in pieno il punto focale di quel colloquio. Quando sono uscito ero contentissimo, non perché mi avevano detto che ero stato bravo, ma perché avevo incontrato i miei prof e la commissione esterna parlando di me, di quello che è importante per me. Ringrazio i miei amici e questa compagnia perché senza una consapevolezza e un’amicizia così non sarei mai riuscito a raccontare tutto questo.
Matteo, Como