La mostra dedicata a Péguy (Archivio Meeting)

Il mio Meeting con Charles e Dorothy

Una giovane neolaureata racconta i suoi due giorni a Rimini. E cosa l'ha colpita e appassionata di quello che ha visto

Quest’anno sono andata al Meeting solo gli ultimi due giorni, appena in tempo per ascoltare il discorso del Presidente della Repubblica Mattarella, bere qualche spritz a bordo piscine e vedere alcune mostre e incontri. Per me ogni anno è un appuntamento fisso, prezioso, in cui può riaccendersi un desiderio e una speranza.

Uso la parola speranza non a caso, perché che mi riporta a uno dei momenti di quei giorni che più mi hanno posto di fronte a qualcosa che ho avvertito subito come grande e vero per me: la mostra “La grande Inquietudine. Charles Péguy e la città armoniosa”. «La speranza sconfigge l’abitudine. La piccola speranza è quella che sempre ricomincia. La speranza è incaricata di ricominciare, come l’abitudine è incaricata di finire gli esseri. Mediante la speranza tutto resta pronto a ricominciare». È la citazione che chiude la mostra e che, in maniera forse inedita, racconta il coraggioso e radicale discorso politico dello scrittore francese. Sono stati approfonditi, infatti, i suoi scritti a partire dal periodo socialista, durante il quale si è impegnato a favore della scarcerazione di Alfred Dreyfuss, si è dedicato a opere di carità (come una mensa dei poveri e la presidenza di una Conferenza di San Vincenzo) e ha fondato il periodico Cahiers de la Quinzaine. La mostra però non si è fermata a questo, è stato infatti presentato il suo pensiero rispetto alla società, alla giustizia, al lavoro e alla secolarizzazione della cultura moderna, mostrando anche come quel fuoco interiore di fronte alle ingiustizie si sia ulteriormente acceso dopo il suo ritorno alla fede cattolica.

La parabola esistenziale dello scrittore francese e la sua concezione di una speranza attiva e trasformativa, mi ha ricordato la vicenda di Dorothy Day, scrittrice americana poco conosciuta in Italia di cui è in corso la causa di beatificazione. Casualmente, leggendo un articolo su La Lettura, inserto settimanale del Corriere, sono andata a recuperare l’incontro del Meeting Rimini su di lei con Simona Beretta, direttrice del Centro di Ateneo per la Dottrina Sociale della Chiesa, Robert Elisberg, curatore dell’autobiografia della Day e Giulia Galeotti, autrice di «Siamo una rivoluzione». Vita di Dorothy Day. La vita della scrittrice statunitense così densa di cambiamenti e rivoluzioni, animata da una domanda tesa e pronta a rimettersi in gioco, a “ricominciare sempre”, mi ha colpito profondamente. Militante per il voto alle donne e scrittrice dalle idee radicali e anarchiche, si converte al cattolicesimo nel 1927. Negli anni successivi, prega intensamente perché le sia mostrata una strada nella quale possa esprimere appieno la sua fede e il suo desiderio rivoluzionario, vedendo spesso nella Chiesa cattolica un avamposto della borghesia (critica mossa anche da Péguy).

Trova compiutamente la sua vocazione nella creazione del giornale e della fondazione Catholic Worker Movement, a New York nel 1933, attraverso il quale condurrà battaglie sociali per una riduzione delle disuguaglianze e il riconoscimento dei diritti dei lavoratori; creerà centinaia di case dell’ospitalità e si batterà per la causa del pacifismo, venendo anche arrestata più volte. Come ha detto Robert Ellsberg all’incontro del Meeting, «inventò un modello di santità che prima non esisteva. Grazie a Dorothy, le future generazioni di cristiani non dovranno più porsi la domanda che si era posta lei “Dove sono i santi che cercano di cambiare l’ordine sociale?”. Ebbene, lei rispose a questa domanda con la sua stessa vita».

I ritratti di questi due scrittori mi sono apparsi speculari, inquieti e desiderosi di cambiamento; figure complesse che, partendo da una dolorosa e fedele osservazione della realtà, hanno agito senza mai dare nulla per scontato, abbandonando e ritrovando poi in maniera più autentica la propria fede. Tutti e due caratterizzati da una unità piena di ferite, ma coraggiosa nella domanda di una società migliore. La consapevolezza di non poter annullare il male del mondo li ha portati a una ricerca ancora più fervente, seguendo quella carità che Péguy descrive come «la bruciante passione ad alleviare le sofferenze degli uomini». Non del mondo genericamente, ma di ciascuna persona incontrata.

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Mi sembra che in queste esperienze, come anche la mostra su Kayròs, Portofranco e Piazza dei Mestieri, venga fatto un richiamo - che non mi lascia indifferente - a una dimensione comunitaria, dove lo sguardo disinteressato e solidale verso il bene della persona e della sua unicità, del suo bisogno particolare, si saldi inequivocabilmente alla ricostruzione di un tessuto sociale, alla denuncia delle ingiustizie, delle disuguaglianze. Ma la vera rivoluzione può essere solo personale, deve partire da sé. Come scrive Péguy: «Non sono gli uomini dal di fuori che fanno una rivoluzione, ma dal di dentro».
Francesca, Milano