(Foto Luca Fiore)

Una certezza sull'umano

Il clima culturale di oggi pone sfide diverse dal tempo in cui fu scritto "Il senso religioso". Allora perché il metodo di don Giussani è più attuale che mai? Una riflessione sul tema da "Tracce" di Luglio-Agosto
Martino Cervo*

«Nella società dell’informazione post-fattuale, il pathos della verità non porta assolutamente a nulla. La verità si disintegra in polvere di informazioni, spazzata via dal vento digitale». Se avesse ragione Byung-Chul Han, nel suo recente Infocrazia, un libro come Il senso religioso andrebbe considerato – sul piano gnoseologico, cioè relativo ad ambiti, metodo e limiti della conoscenza – un testo quasi inservibile. E il filosofo ha ragione: rispetto al periodo in cui don Luigi Giussani ha condensato le sue lezioni nel volume di recente ripubblicato con il testo di Jorge Mario Bergoglio che fa da Prefazione, non solo è finita l’«epoca di ideologie» di cui si parla fin dalla prima pagina, ma la categoria stessa della verità, intesa come anelito e oggetto di ogni energia tesa a conoscere, appare annichilita. Prima da quello che Ratzinger chiamava relativismo (secondo il quale «tutto si equivale e non esiste alcuna verità, né alcun punto di riferimento assoluto», e che «non genera la vera libertà, ma instabilità, smarrimento, conformismo alle mode del momento»), poi da qualcosa d’altro che, sotto i nostri occhi, ha accompagnato fuori dalla scena l’interesse stesso per la verità.

Senza addentrarsi in territori impraticabili, si potrebbe dire che l’eredità razionalista, la fiducia di poter concentrare l’avventura del conoscere in ciò che è scientificamente misurabile e frazionabile, è precipitata in un mondo letteralmente creato dal potere digitale e dalla sua unità minima: il bit, 0/1, atomo binario alla base di tutto. Non serve arrivare ai deep fake o ai rischi della cosiddetta intelligenza artificiale: siamo già in un sistema di connessioni inaggirabili (social, informazione, lavoro, tempo libero) in cui la verità è «disintegrata» in dati sorvegliati e commerciabili, e il principio di non contraddizione – una cosa su cui si è più o meno fondato l’Occidente – pacificamente obliterato. Non a caso, forse, un tratto tipico del potere che si veste di scienza è quello di arrogarsi la facoltà di imporre tramite “esperti” una cosa e il suo esatto contrario. Quasi cento anni fa lo scrittore e giornalista Hilaire Belloc preconizzava: «Si può prevedere che ci verranno presentati come fatti dogmatici masse sempre maggiori di ipotesi, e che allorché una ipotesi verrà dimostrata erronea, in luogo di ammettere l’errore si costruirà un’altra ipotesi che dissimuli la frattura e così via, sinché un’intera struttura di ipotesi immaginarie costruite ad infinitum su ipotesi precedenti eleverà il suo velario di nebbia inteso a nascondere la realtà».

L’individuo abita così un mondo popolato di «sfide» estreme, apocalissi imminenti, conversioni continue e necessarie ma senza metafisica: dal clima alla salute, dall’economia al lavoro. Ed è un mondo che nasconde o combatte la realtà: cos’altro è la deriva estrema della cancel culture, l’ideologia woke già trasformata in violenza e in grave problema di libertà, se non l’impulso di negazione del dato e la sua ricostruzione tramite il linguaggio? Il carattere ultimativo di cui, nella concezione liberale, si è rivestito il metodo scientifico, più propriamente quello della tecnica nelle sue applicazioni economiche e giuridiche, ha reso pressoché impraticabile il percorso della conoscenza su ciò che da tale metodo è escluso. Nella lezione inaugurale al Collège de France nel 1967, il grande biologo Jacques Monod, premio Nobel per la Medicina e autore del celebre Il caso e la necessità, spiegò che se l’uomo moderno vive nell’ansia è a causa della «diffidenza nei confronti della scienza»: «Il solo scopo, il valore supremo, il bene sovrano dell’etica della conoscenza non è la felicità dell’umanità, né il potere sul tempo o il benessere, né il “conosci te stesso” socratico: è la conoscenza oggettiva stessa. Ritengo sia necessario sistematizzare tale etica, liberarne le conseguenze morali, sociali, politiche, diffonderla e insegnarla, perché, in quanto creatrice del mondo moderno, è la sola compatibile con esso».

Ma cos’è questa conoscenza oggettiva? Il moderno fa coincidere col nulla ciò che sfugge al metodo “scientifico” così inteso: anzi, tesa all’estrema conseguenza questa concezione, la realtà è un prodotto di questo metodo. Ciò sembra generare un mondo che, come scrive il filosofo Peter Sloterdijk, «non deve più essere né interpretato né cambiato: dev’essere sopportato». E in effetti, è un mondo felice? Mica tanto. Non è innaturale il sorgere di una confusa ribellione. La via di fuga è tuttavia un’idea solipsistica e sospettosa di conoscenza, spesso venata di rifiuto di qualunque autorità e di sfiducia in qualunque principio che non sia definito per pura opposizione. La polarizzazione, amplificata dalle modalità dei motori di ricerca e dei social network (i cui algoritmi sono basati sul rinforzo predittivo che offre solo conferme ai nostri gusti, tendenze, idee), si fa sempre più allucinata nelle idee, tra i gruppi ma anche tra i singoli, e perfino nelle famiglie.

C’è molto più in comune di quanto non sembri tra il woke radicale e ciò che chiamiamo un complottista, ed entrambi contribuiscono all’erosione di un terreno comune. «Oggi», ha scritto ancora Byung-Chul Han, «non ci troviamo soltanto in una crisi economica o pandemica, ma anche in una crisi narrativa. Le narrazioni creano significato e identità. Così, la crisi narrativa porta al vuoto di significato, alla crisi identitaria e al disorientamento. È qui che le micro narrazioni delle teorie del complotto offrono un rimedio. Esse sono assunte come risorse identitarie e di significato».

Se questo è il bivio, se l’alternativa al «pensiero dominante» è una reattività delirante, e se proprio su ciò che ha più valore (in quanto interessa, in quanto vale la pena) non si può sapere nulla, la concezione della conoscenza de Il senso religioso regge, dopo tanti lustri? Non bisogna fare al libro il torto di considerarlo un manuale di filosofia. L’alveo in cui si muovono le lezioni di Giussani è quello di una originalità di riproposizione e di incessante attualizzazione – anche linguistica – delle categorie dell’antropologia cristiana: tanto che proprio alla gnoseologia deducibile da Giussani è dedicato un capitolo del secondo volume di approfondimento sull’apporto del sacerdote di Desio (Vivere la ragione, a cura di Carmine Di Martino, Rizzoli 2023). La conoscenza è – in sintesi – un avvenimento, un incontro tra energia conoscitrice del soggetto e l’oggetto che è la realtà: una dinamica cui nulla è estraneo e i cui criteri risiedono nel soggetto stesso, pur non essendo da lui creati. Come si legge nel saggio di Tommaso Mauri pubblicato nel libro citato, «Giussani fa leva sulla definizione di ragione come “apertura alla realtà, capacità di afferrarla e affermarla nella totalità dei suoi fattori” in connessione con la possibilità di acquisire, attraverso la mediazione di un testimone, la conoscenza di qualcosa di cui non si ha evidenza diretta (la fede come metodo di conoscenza). Queste considerazioni non sono da intendere come presupposti acriticamente accettati, ma sono anch’esse ottenute per via fenomenologica». Un «allargamento» della ragione che è agli antipodi della modernità, la quale associa al termine “fede” un’astrazione, una sovrastruttura. A tale livello, invece, la «conoscenza per fede» non implica ancora una credenza, ma una possibilità di comprensione, oggi negata a priori, su ciò che di più concreto e importante esista: se stessi.

La lezione di Giussani che emerge da Il senso religioso spalanca un oggetto che resta fuori dalla concezione di Monod: la stoffa dell’io. E questa sconfinata e misteriosa strada non è rifugio mistico ma già conoscenza razionale. Il paragone continuo con l’«esperienza elementare» sorpresa tra le pieghe delle cose è fecondo per capire se stessi, per fare meglio il proprio lavoro, per decidere la linea di un giornale, per amare i figli, per fare ciò che la mentalità contemporanea oblitera ma che il fondo di ogni giornata chiede senza tregua: vivere un senso. Una certezza sull’umano è possibile: in un’epoca in cui perfino il dato di natura e l’identità sessuale sono subordinati ai termini decisi dal potere, questa è l’ardente attualità di Giussani e della sua idea di conoscenza contro ogni astrazione, fosse pure di carattere religioso. Certo, adoperare il vaglio dell’esperienza anche nell’indagine sull’umano è un’avventura vertiginosa: è un metro che misura se stesso. Ma non è meno ragionevole demandare il criterio ad altri? La forza stringente di queste pagine di Giussani, della sua (e di Tommaso, e di Pascal) idea di conoscenza, imprevedibile intersezione tra verità ed esperienza, apre uno spazio di libertà e di impegno che investe tutti gli ambiti della vita.

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L’alternativa opprimente tra l’abbandono pedissequo alla mentalità prevalente e il rifugio nel rifiuto scettico si scioglie così in una strada altra, che permette di abitare e giudicare anche un mondo fatto così, dando almeno un nome alle cose. E poiché il nucleo di esigenze costitutive è comune a ciascuno, questo nuovo spazio è l’ambito più utile all’unità e alla comunicazione possibili tra gli uomini attraverso il tempo e la storia: «Senza il metodo di conoscenza della fede», scrive Giussani, «non ci sarebbe sviluppo umano». Per questo è una strada tanto negata quanto necessaria: tocca realtà incommensurabili eppure decisive, permette un inizio di libertà che sorge dalla tradizione e riconosce l’esigenza di essere amati, di gustare il bello, di fare il giusto, di capire il vero. Se il metodo – come afferma Il senso religioso – è imposto dall’oggetto, è vero anche che l’oggetto della conoscenza viene meglio svelato e messo a fuoco da un metodo così inteso e difeso.

*Giornalista, vicedirettore del quotidiano La Verità