La sede della Corte Suprema americana a Washington (Foto Unsplash/Tim Mossholder)

La Corte Suprema Usa e l'"affirmative action"

Il tentativo delle università americane di perseguire l'inclusione delle minoranze etniche può diventare una forma di discriminazione? Un dialogo con Paolo Carozza prova a far chiarezza sul recente dibattito Usa (da us.clonline.org)
Amy Hamm

Il 29 giugno 2023, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha pubblicato la sua decisione sul caso” “Students for Fair Admissions, Inc. v. President & Fellows of Harvard College”. In un parere formulato dal Presidente della Corte John Roberts, la Corte ha stabilito che i programmi di ammissione dello Harvard College e dell’Università della North Carolina - in cui la razza di un candidato poteva essere un fattore a favore o contro l’ammissione del candidato stesso - sono contrari alla equal protection clause (clausola di uguale protezione, ndt) del XIV emendamento. Tre giudici si sono dissociati dalla decisione e molti (tra cui il presidente Joe Biden) hanno espresso disaccordo e disappunto per la sentenza. I commentatori discutono se il caso rappresenti un progresso o una battuta d’arresto per il Paese. Per comprendere meglio la questione, con il desiderio di prendere in considerazione tutti i fattori in gioco, abbiamo intervistato il professor Paolo Carozza della Notre Dame Law School sulla motivazione costituzionale e giuridica del parere della Corte e sulla storia del XIV Emendamento in relazione alle ammissioni all’università. Questo articolo cerca di estrapolare i punti più utili dalla nostra conversazione.

Nonostante il fatto che le politiche di affirmative action (discriminazione positiva/inclusione, ndt) abbiano suscitato una risposta di parte e spesso polarizzata negli ultimi decenni, una lente politica non è la più utile per capire come e perché la Corte Suprema abbia così deliberato su questo caso. La tendenza a saltare al quadro polarizzato delle nostre preferenze rappresenta un problema più ampio, difficile da superare.

Come ha spiegato il professor Carozza, spesso abbiamo l’abitudine di «ridurre le argomentazioni legali e costituzionali a questioni sociali e morali. Le decisioni della Corte Suprema vengono totalmente ridotte alla domanda se - da un punto di vista politico o di principio - sia qualcosa che ci piace o qualcosa che non ci piace. Come se questa fosse l’unica cosa che deve definire la questione giuridica sottesa… Invece, la legge mantiene il suo carattere peculiare di utilità in una società, specialmente in una società pluralistica e complessa come la nostra, anche per il suo essere qualcosa di diverso da una pura e infinita argomentazione morale su ciò che pensiamo sia meglio per la società».

Questo recente caso di affirmative action, quindi, non riguarda solo un principio che si può accettare o rifiutare. Rappresenta anche un elemento peculiare in una lunga e complessa storia di interpretazione delle leggi da parte della Corte Suprema all’indomani della Guerra Civile, in un contesto ancora caratterizzato da pregiudizi e discriminazioni razziali. Per comprendere questa storia è necessario partire dal XIV Emendamento, aggiunto alla Costituzione nel 1868 per assicurare a tutti gli americani i pieni diritti di cittadinanza e per garantire ai cittadini stessi pari tutela da parte della legge. Sebbene la razza non sia menzionata nell’emendamento, esso offriva alle persone precedentemente ridotte in schiavitù e recentemente emancipate una protezione costituzionale dalla possibilità che gli organi legislativi statali o il Congresso approvassero leggi che potessero di fatto ridurre nuovamente in schiavitù i neri americani. Come ha spiegato il professor Carozza, il testo del XIV Emendamento era intenzionalmente neutrale rispetto alla razza, proprio per evitare che gli Stati del Sud tentassero di «ripristinare vari tipi di categorizzazione sulla base della razza».

Negli ultimi centocinquant’anni numerose leggi, statali e federali, sono state impugnate per violazione della equal protection clause del XIV Emendamento, poiché applicavano trattamenti diversi a persone di razza diversa. La giurisprudenza che ne è scaturita ha portato a un’interpretazione dell’Emendamento prevalentemente priva di pregiudizi razziali, soprattutto alla luce della storica decisione della Corte Suprema “Brown v. Topeka Board of Education” del 1954. In questo caso, il Presidente della Corte Suprema Earl Warren enunciò la nota decisione presa all’unanimità che dichiarava incostituzionale la segregazione delle razze nelle scuole pubbliche. È importante notare che questa decisione ribaltava il precedente della Corte Suprema stabilito nel caso “Plessy v. Ferguson” del 1896. Plessy difendeva la creazione di strutture pubbliche separate per i bianchi e i neri, a condizione che tali strutture fossero di pari qualità. La decisione Brown, invece, affermava che le pratiche di segregazione legalmente codificate violano la equal protection clause e che «separare è intrinsecamente ingiusto».

Tuttavia, sono continuate a emergere controversie sugli intenti del XIV Emendamento e sul modo in cui esso dovrebbe essere interpretato dalla Corte. In effetti, le differenze di interpretazione rappresentano il principale punto di disaccordo tra la maggioranza e la minoranza nella causa “Students for Fair Admissions v. Harvard”.

In generale, i giuristi più conservatori tendono a favorire un’interpretazione del XIV Emendamento come strumento per conseguire la parità giuridica quando la legge è applicata a persone di razza diversa, il che significa che qualsiasi legge che tratti in modo diverso razze diverse sarebbe incostituzionale. I giuristi più liberali leggono il XIV Emendamento come un modo per conseguire la parità sociale tra le razze, che come principio giuridico può essere usato per giustificare norme che di fatto prevedono un trattamento particolare per le persone di razza diversa.

Nel corso del tempo, la Corte Suprema ha sviluppato il cosiddetto test di “strict scrutiny” (rigoroso controllo, ndt) per determinare se le leggi che di fatto trattano in modo diverso le diverse razze sono costituzionali. Le leggi devono innanzitutto «servire un interesse nazionale primario» e, in secondo luogo, essere «rigorosamente mirate» a perseguire tale interesse.

La Corte ha tentato di utilizzare questo test per le norme di inclusione, in riferimento alla pratica di creare norme con lo scopo dichiarato di generare pari opportunità per i gruppi che sono stati storicamente discriminati. Il più delle volte, queste norme sono applicate nell’ambito dell’ammissione all’università e dell’occupazione, e sono state utilizzate da molti college e luoghi di lavoro per dare un “vantaggio” ai candidati appartenenti a gruppi minoritari. Questa pratica si è trovata più volte nel mirino della Corte Suprema nel corso degli ultimi decenni, nelle occasioni in cui la Corte si è impegnata a fornire un parere definitivo sulla affirmative action nel contesto del XIV Emendamento.

La Corte Suprema si occupò per la prima volta di questa pratica nel caso “Regents of the University of California v. Bakke” del 1978, in cui Allan Bakke, un candidato bianco, contestò le norme di ammissione alla facoltà di medicina dell’Università della California. Le norme di ammissione consentivano che i candidati appartenenti a minoranze venissero ammessi con punteggi MCAT (Testi di ammissione a medicina) e altri punteggi accademici inferiori rispetto a Bakke. Bakke contestò queste politiche sulla base della clausola di uguale protezione, sostenendo di essere stato discriminato a causa della sua razza.

Il parere espresso della Corte Suprema ha confermato la pratica dell’affirmative action, ma non ha risolto la questione. Come ha spiegato il professor Carozza: «Al livello più semplice, essenziale e superficiale, Bakke ottenne cinque voti a favore di una norma che tenesse conto della razza nelle ammissioni. Quindi, a quel livello, Bakke ha stabilito un precedente. Ma, cosa ancora più importante, non ci fu un accordo di maggioranza sulle motivazioni o sui limiti entro i quali sia possibile tenerne conto».

I cinque voti a favore della norma erano espressione di un giudizio unanime, e non di una decisione a maggioranza sottoscritta per accettazione dai restanti giudici. La decisione del giudice Powell divenne in ultima analisi lo “standard di fatto”. «Il suo parere», continua Carozza, «mette in luce il fatto che nella società americana e nella nostra storia esiste una profonda ambivalenza sull’uso della razza, tanto dal punto di vista costituzionale come da quello sociale. Si riconosce che vogliamo la parità, si riconosce che esistono ancora retaggi del razzismo, ma siamo molto a disagio nel creare regole e istituzioni che affermino la categorizzazione delle persone sulla base della razza. Così il parere di Powell sostiene che si può prendere in considerazione la razza, ma solamente a determinate condizioni. Non può essere usata come una quota percentuale. Non si può cercare di ottenere una certa percentuale di rappresentanza razziale nelle classi di ammissione. La razza può essere usata solo come un fattore positivo, un fattore di vantaggio nell’ammissione di persone appartenenti a minoranze razziali che presumibilmente sono state svantaggiate». Oltre a fornire un quadro e dei limiti su come la razza può essere utilizzata nelle ammissioni universitarie, il parere di Powell suggerisce che qualsiasi politica di inclusione dovrebbe essere temporanea. Anche se il giudice non sviluppò a fondo questa idea, essa sarebbe diventata un importante punto di riferimento per la futura giurisprudenza.

La Corte si è poi occupata dell’affirmative action in un caso relativo alle norme di ammissione alla facoltà di legge dell’Università del Michigan, nella causa "Grutter v. Bollinger" del 2003. In questo caso, la maggioranza ha sostanzialmente sostenuto l’opinione del giudice Powell nel caso Bakke. Inoltre, il voto 5-4, con le motivazioni della sentenza - deliberata a maggioranza - formulate dal giudice Sandra Day O’Connor, ha codificato gli standard originariamente delineati da Powell diversi decenni prima, riaffermando che un corpo studentesco razzialmente diversificato è un interesse statale primario e che le università possono elaborare politiche di ammissione strettamente orientate a questo scopo. O’Connor, tuttavia, ha affermato ancor più decisamente che qualsiasi politica di affirmative action doveva essere temporanea, proponendo un’ipotesi di venticinque anni come arco temporale adeguato per consentire agli studenti appartenenti alle minoranze di superare i divari storicamente discriminatori nell’ambito dell’educazione e delle opportunità senza la spinta aggiuntiva fornita dalle politiche di affirmative action.

Pur essendoci stati nel frattempo diversi altri casi, la decisione della Corte di quest’anno nel caso “Students for Fair Admissions v. Harvard” ha offerto una nuova interpretazione sostanziale dello status dei casi di affirmative action rispetto al XIV emendamento.

Il verdetto raggiunto a maggioranza dalla Corte Suprema, presieduta da John Roberts, ha ribaltato il precedente stabilito da Bakke e Grutter, stabilendo l’incostituzionalità delle politiche di inclusione nelle ammissioni universitarie.

Questa decisione è legata al test dello “strict scrutiny. Come ha spiegato Carozza, «il punto centrale dello strict scrutiny è che esiste un motivo per mantenere il governo a uno standard molto alto di giustificazione, in parte perché ciò che stiamo facendo è permettere al governo di fare qualcosa che, in linea di principio, è vietato dalla Costituzione e che non vorremmo trasformare in un permesso generalizzato. Quindi, il richiedere una modalità quantificabile per determinare se l’interesse governativo primario è effettivamente soddisfatto è un modo per applicare questo tipo di strict scrutiny. Mostrateci esattamente il male a cui state ponendo rimedio. Mostrateci esattamente come questo specifico programma che state proponendo sarà strettamente finalizzato ad affrontare quello specifico male. Questo è il modo per contenere la possibilità che il Governo possa semplicemente scavalcare i principi costituzionali fondamentali dicendo: “Beh, questo rappresenta un interesse generale, e quindi metteremo da parte il principio, perché questo è un obiettivo sociale importante per noi”».

Offrendo un rimedio a un male non specificato, Roberts sostiene che i programmi di affirmative action sono diventati troppo nebulosi e non quantificabili in termini di efficacia. Continua il professor Carozza: «Credo sia innegabile che nelle argomentazioni di Harvard e della North Carolina si ammetteva essenzialmente che non c’è un punto di arrivo (e quindi) nessun controllo significativo». La Corte potrebbe essere d’accordo sul fatto che avere un corpo studentesco eterogeneo è importante per aiutare a “far crescere cittadini migliori”, ma come potrà determinare quando questo obiettivo è stato raggiunto?

Secondo il professor Carozza, questo tipo di politiche generiche, che prevedono un “vantaggio” per le candidature di studenti appartenenti a minoranze, hanno di fatto creato il tipo di categorizzazione degli studenti appartenenti a minoranze contro cui Bakke e Grutter avevano specificamente messo in guardia. Carozza esemplifica: «La realtà di chi come noi lavora nell’istruzione superiore è che tutti noi sappiamo e vediamo quotidianamente che le preferenze razziali vengono utilizzate molto aggressivamente in svariati modi. Il modo in cui l’obiettivo della diversificazione nell’istruzione superiore è stato attuato negli ultimi venticinque anni è quello di imporre preferenze razziali molto rozze, categoriche e stereotipate».

A titolo di esempio, Roberts citava nella sua decisione le informazioni sulle ammissioni di Harvard, che mostrano percentuali estremamente costanti di diversi gruppi minoritari ammessi ogni anno ai loro programmi di laurea, numeri che forse non rappresentano ufficialmente una “quota percentuale”, ma che certamente lo sembrano sulla carta. Ciò ha fornito un ulteriore supporto a Roberts e al resto della maggioranza per concludere che gli standard stabiliti in Bakke e Grutter erano diventati insostenibili.

Anche il fatto che gli Students for Fair Admissions rappresentassero i candidati asiatici a Harvard è significativo. Come ha commentato il professor Carozza: «Qui è davvero chiaro che le preferenze per certi gruppi razziali vengono usate attivamente per discriminare un altro gruppo minoritario a favore di un’altra minoranza, per la quale c’è anche una lunga e brutta storia di discriminazione razziale in questo Paese».

E cosa significa questo per le politiche di ammissione alle università? Alle università Roberts lascia aperta la porta per poter prendere in considerazione la razza su base strettamente individuale, ma senza una corrispondente politica di offerta di un “vantaggio” nella domanda di ammissione rispetto agli altri studenti. Gli studenti possono, per esempio, utilizzare i loro elaborati di presentazione personali per descrivere i modi in cui la razza ha plasmato la loro esperienza individuale, ha fornito opportunità di leadership o ha sviluppato i loro interessi e gli studi che vorrebbero intraprendere, tutti elementi che possono essere presi in considerazione dalle commissioni di ammissione. Resta da vedere come le università modificheranno le loro politiche e cosa ciò potrebbe comportare per le altre modalità in cui le commissioni di ammissione offrono un “vantaggio” a certi candidati, come i legacy students (facilitazioni per chi si iscrive a un istituto superiore in cui si sono laureati i propri genitori o nonni).

Un’ultima considerazione riguardo al passato e il futuro dell’affirmative action non può prescindere dal fatto che gli Stati Uniti stanno ancora facendo i conti con il peccato dello schiavismo, e che abbiamo alle spalle una annosa storia di discriminazione razziale che continua ad avere impatto sulle nostre realtà sociali e politiche. Ma la legge può arrivare solo fino a un certo punto per risolvere questo problema, soprattutto data la volatilità della giurisprudenza della Corte Suprema. Il professor Carozza ha condiviso le sue riflessioni sui limiti del ruolo che la legge può svolgere per ridurre le nostre problematiche sociali, spiegando che «entrambe le facce della questione dell’affirmative action - sia che siate davvero convinti che una società priva di pregiudizi razziali, senza distinzioni razziali imposte dalla legge, sia l’ideale giusto, o che siamo una società profondamente e sistematicamente razzista, dal primo all’ultimo, e quindi tutte le istituzioni dovrebbero tenere conto della razza (i due estremi della Corte Suprema rappresentati dai giudici Thomas e Brown Jackson) - hanno origine dalla domanda sul tipo di società a cui dovremmo aspirare e da un desiderio di una maggiore umanità. Per noi e per i nostri amici, entrambi questi estremi sono riduttivi e insufficienti per realizzare davvero il tipo di cambiamento che nasce dall’ottica cristiana, cioè una società più inclusiva, una società più caritatevole, una società più umana in cui siamo effettivamente a servizio del bene comune e ci prendiamo cura dei poveri, dei deboli e dei fragili. La legge da sola non cambierà le cose. Dobbiamo chiederci cosa sia veramente in grado di cambiare il cuore dell’uomo e di generare una umanità nuova e una nuova cultura».