Indi Gregory (Foto Facebook)

Il dolore innocente e la presunzione di uno Stato onnipotente

La piccola Indi Gregory è morta nella notte. La sua storia rimette tutti «davanti alla prima evidenza: non ci facciamo da soli». Il contributo di Giuliana Ruggieri, membro del Comitato Nazionale per la Bioetica
Giuliana Ruggieri*

Tutte le volte che in questi anni mi trovo davanti alle drammatiche storie come quella di Indi, di Charlie Gard, di Alfie Evans, Archie Battersbee e chissà quanti altri con storie a noi sconosciute, mi torna in mente un volantino di Comunione e Liberazione del 2008: “Caso Eluana, carità o violenza”: «Che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”? Dov’è il punto di origine di una ragione impazzita, capace di ribaltare bene e male e, quindi, incapace di dare alle cose il loro vero nome? (…) Nella lunga storia della medicina il suo sviluppo è diventato più fecondo quando, in epoca cristiana, è cominciata l’assistenza proprio agli “inguaribili”, che prima venivano espulsi dalla comunità degli uomini “sani”, lasciati morire fuori dalle mura della città o eliminati. Chi se ne fosse occupato avrebbe messo a rischio la propria vita. Per questo chi cominciò a prendersi cura degli inguaribili lo fece per una ragione che era più potente della vita stessa: una passione per il destino dell’altro uomo, per il suo valore infinito perché immagine di Dio creatore».

O come scrive Elio Sgreccia: «L’inguaribilità non può mai essere confusa con l’incurabilità: una persona affetta da una malattia ritenuta, allo stato attuale della medicina, inguaribile, è paradossalmente il soggetto che più di ogni altro ha diritto di chiedere ed ottenere assistenza e cura, attenzione e dedizione continue: si tratta di un fondamento cardine dell’etica della cura, che ha come principali destinatari proprio coloro che versano in uno stato di vulnerabilità, di minorità, di debolezza maggiore (…). Il volto umano della medicina si manifesta proprio nella pratica clinica del “prendersi cura” della vita del sofferente e del malato. Il diritto ad essere continuativamente oggetto, o meglio ancora, soggetto delle attenzioni e delle cure da parte di familiari e non, risiede nella dignità di cui una persona umana, anche se neonata, malata e sofferente, mai cessa di essere titolare.” (Elio Sgreccia, La lezione del piccolo Charlie Gard, in Medicina e Morale, 3/2017, pp. 285-289).

È accanimento terapeutico? In realtà non conosciamo fino in fondo le condizioni cliniche della piccola Indi, non aveva la tracheostomia, aveva ausili per respirare e per nutrirsi, sembrava reattiva stringendo la manina a chi le stava vicino. Il giudizio bioetico «deve partire dalla conoscenza dell’esatta situazione clinica della bambina, delle cure intraprese, della prognosi, e si fa al letto del paziente. L’accanimento terapeutico si configura quando si mettono in atto trattamenti sproporzionati rispetto a una morte imminente e inevitabile. Ma Indi non è una paziente terminale, neanche i medici inglesi l’hanno definita così, è una bambina con malattia inguaribile» (Matilde Leonardi, “Perché si nega la libertà di scelta ai genitori?”, Avvenire 10 novembre 2023).

Molti - filosofi, giornalisti, bioeticisti - dai giornali, dalle radio, dall’alto della propria esperienza professionale, lontano quindi dal “letto del malato”, basano il giudizio sull’accanimento terapeutico in realtà sulla “qualità di vita”, “vite non degne di essere vissute”, una sorta di “accanimento tanatologico”… mettendo a tacere ogni rigurgito di speranza dei genitori.

Inoltre, come prosegue quel volantino, queste storie ci mettono davanti «alla prima evidenza che emerge nella nostra vita: non ci facciamo da soli. Siamo voluti da un Altro. Siamo strappati al nulla da Qualcuno che ci ama e che ha detto: “Persino i capelli del vostro capo sono contati”. Rifiutare questa evidenza vuol dire, prima o poi, rifiutare la realtà. Persino quando questa realtà ha il volto delle persone che amiamo».

Non siamo noi padroni della nostra vita, dei nostri figli e di nessuno di questi piccoli.

Ecco perché - ancora una volta - la storia di Indi ci mette davanti il fallimento della logica dell’autodeterminazione che diventa in realtà “eterodeterminazione”: si sostituisce al volere dei genitori uno stato laico, che sotto forma di giudice, si orienta come fosse un “moralizzatore” arrogandosi il potere di decidere della morte e della vita. Inoltre l’autodeterminazione sembra valere solo per la morte… ma mai per la vita. Così ai genitori di questi bambini non viene permessa la “libertà di cura”, il poter avere un altro parere, una second opinion, tra l’altro in un ospedale pediatrico di eccellenza.

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Ecco perché arrivare fino a riconoscere Chi ci sta donando la presenza di queste creature, «non è un’aggiunta “spirituale” per chi ha fede», continuava il volantino: «È una necessità per tutti coloro che, avendo la ragione, cercano un significato. Senza questo riconoscimento diventa impossibile abbracciarle e vivere il sacrificio di accompagnarle; anzi, diventa possibile ucciderla e scambiare questo gesto, in buona fede, per amore. Il cristianesimo è nato precisamente come passione per l’uomo: Dio si è fatto uomo per rispondere all’esigenza drammatica - che ognuno avverte, credente o no - di un significato per vivere e per morire; Cristo ha avuto pietà del nostro niente fino a dare la vita per affermare il valore infinito di ciascuno di noi, qualunque sia la nostra condizione».

Ma i miracoli avvengono e grazie alla testimonianza di una volontaria che visitava ogni giorno Indi e degli avvocati che li hanno difesi e sostenuti, la piccola ha ricevuto il Battesimo. Nel dolore innocente e nell’inferno del limite umano entra misteriosamente l’Eterno.

da culturacattolica.it

*membro del Comitato Nazionale per la Bioetica e presidente dell'Osservatorio di Bioetica di Siena