Dopo gli scontri nel campo profughi di Jenin, Cisgiordania (Ansa-Zumapress/Mohammed Nasser/APA Images))

Terra Santa. Un'altra logica

La guerra tra Hamas e Israele è scoppiata mentre la comunità di CL era riunita per la Giornata d’inizio anno. I dialoghi, le testimonianze, le tensioni. E una scoperta. Da "Tracce" di Novembre
Luca Fiore

Il 7 ottobre era in programma la Giornata d’inizio anno della comunità di CL in Terra Santa. È stata anche la giornata di inizio della guerra tra Hamas e Israele. Doveva essere un incontro particolare, la prima convivenza che riuniva le Scuole di comunità di Haifa, Gerusalemme e Betlemme. Arabi cristiano-palestinesi, italiani, spagnoli e cittadini israeliani. In tutto una ventina. Tre giorni insieme, ospiti di un convento ad Abu Gosh, a pochi chilometri da Gerusalemme, dal venerdì alla domenica, per conoscersi meglio. È stato anche questo, ma non solo. La nuvola di razzi di Hamas lanciati da Gaza, la strage al rave party, la presa di ostaggi, la rappresaglia implacabile e spietata dell’esercito israeliano, la fuga di centinaia di migliaia di palestinesi, le bombe sull’ospedale. La logica della guerra ha infiammato quelle ore e i giorni successivi, facendo ripiombare nell’incubo della violenza la Terra Santa e la vita di ciascuno dei partecipanti all’incontro di CL. “La fede, compimento della ragione”, il titolo proposto per la Giornata d’inizio anno 2023, si è intrecciato, in modo misterioso, con i titoli dei giornali: “Israele colpito al cuore”, “Medioriente in fiamme”, “Israele, bagno di sangue”.

La scelta di trovarsi ad Abu Gosh è dettata da ragioni oggettive legate alla situazione politica: i cittadini israeliani non possono recarsi nei territori palestinesi, mentre le donne della comunità di Betlemme sono riuscite ad avere il permesso per entrare a Gerusalemme. Karen è ebrea convertita al messianesimo, una Chiesa protestante che riconosce Gesù come il messia. Da un anno partecipa alla Scuola di comunità di Gerusalemme. «Ho provato a frequentare tanti gruppi», ha detto agli altri: «Ma nessuno è come il vostro. Voi siete cristiani che non hanno smesso di cercare la felicità». Lei, ad esempio, non avrebbe potuto recarsi a Gerico, dove inizialmente si pensava di andare.

Le sirene annunciano l'arrivo di missili di Hamas sulla città di Rehovot, Israele (AP Photo/Dor Kedmi/La Presse)

Lina, invece, è un’araba cristiana di Betlemme. È arrivata a Gerusalemme il giorno prima: da oltre un anno non andava a pregare sul Santo Sepolcro, nonostante viva a pochi chilometri. «Quel primo giorno insieme è stato bellissimo. Dopo la breve introduzione di Hussam, il responsabile di CL in Terra Santa, abbiamo fatto dei giochi insieme. Ci siamo divertiti e abbiamo riso molto. Sono andata a letto contenta. Ripensavo a quei momenti e ridevo da sola. Mi sono sentita voluta bene». Non sapeva che si sarebbe svegliata in un Paese in guerra.

«Il primo messaggio è stato quello di Karen», racconta Daniela, archeologa italiana, curatrice del Terra Sancta Museum di Gerusalemme: «All’inizio non capivamo che cosa stesse succedendo. Capita che arrivino razzi da Gaza, ma sono casi isolati. Ma dopo poco è stato chiaro. Abbiamo visto che Hamas aveva attaccato via terra. È suonata la sirena e siamo entrati nel rifugio. Quando siamo usciti la collina davanti a noi era in fiamme». Nessuno capisce che cosa deve fare. Uscire in strada è pericoloso. Chi abita a Betlemme non è sicuro di poter rientrare. Qualcuno alla Giornata d’inizio ha portato anche i figli. Karen si chiude in camera terrorizzata: teme che qualcuno venga a prenderla per rapirla perché ebrea. «Bastavano gli sguardi per capire la tensione», racconta Hussam, medico di Haifa: «In mezzo all’agitazione ci siamo detti che l’unica cosa che potevamo fare era pregare. Potevamo solo offrire. La situazione era molto incerta, ma capivamo di essere chiamati a stare lì e continuare a fare quello che stavamo facendo». Dice Lina: «Non sapevo che cosa dire. La mia famiglia era rimasta a casa. Qualcuno invece aveva lì i bambini. Io ho detto che qualsiasi cosa avessero scelto di fare avrei seguito la decisione. È stata dura, ma stare insieme ha reso le cose un po’ meno difficili».

Recitare le Lodi in Terra Santa durante una guerra non capita tutti i giorni. Certe parole risuonano di più e scavano nel profondo. «Il Signore ti proteggerà da ogni male, Egli proteggerà la tua vita», dice il Salmo 120. E un’antifona recita: «Cambierò il loro lutto in gioia. Li consolerò e li renderò felici».

La Giornata d’inizio anno comincia con una breve lezione di padre Gianfranco Pinto Ostuni, francescano di Terra Santa. Si ascolta la testimonianza di Jone Echarri. Poi quella di Souzy Hazin, palestinese di Betlemme che racconta la vita difficile nei territori sotto l’Autorità nazionale palestinese. «Prima di incontrare il movimento ero sempre ansiosa, preoccupata per il futuro mio e dei miei due figli. Sentivo che mi mancava qualcosa. Mi sentivo sola e sopraffatta dalle responsabilità della vita. Chiedevo sempre a Gesù: perché mi hai fatto nascere qui? Ma lui non rispondeva».

Poi l’incontro con un gruppo di italiani che le fanno conoscere la vita del movimento, un modo di vivere che la attrae in modo magnetico: «La nostra amicizia mi ha aiutata ad allargare gli occhi per vedere Gesù, ascoltare la sua voce e aprire il mio cuore. Mi hanno trattato come un essere umano e questo ha cambiato la mia vita. Nei loro occhi vedo Gesù». Souzy è interrotta dalla sirena di allarme che annuncia un nuovo missile in arrivo. Tutti si alzano e raggiungono il rifugio. Con le orecchie drizzate e con la stretta al cuore attendono in silenzio l’esplosione. Che però non arriva. Dopo alcuni minuti, l’allarme rientra. E si ritorna ad ascoltare la testimonianza. Che continua così: «Ora, grazie alla nostra amicizia e alla scoperta di me stessa, sono incredibilmente felice di essere nata e di vivere a Betlemme, la città dove è nato Gesù. E ho imparato ad accettare la mia vita così com’è e a cercare di renderla migliore per me, la mia famiglia e anche per la mia città. E ho imparato da questi nuovi amici che possiamo cambiare il mondo cambiando prima noi stessi».

Daniela aveva preparato i canti, tra cui Se tu sapessi, di don Antonio Anastasio. «È stato commovente cantarla quella mattina. Ha aiutato a esprimere la domanda che avevo dentro. È Cristo che dice alla Samaritana: Se tu sapessi quanto ti ho aspettato / Quanto ti ho pensato, quanto ti ho voluto. Mi sono resa conto di Chi mi stava abbracciando in quel momento. E quella è una logica che va molto oltre la contrapposizione delle parti che recriminano le proprie ragioni. È stato come sentire una carezza».

Al pomeriggio, per provare ad allentare la tensione, si propongono ancora dei giochi che coinvolgano grandi e piccoli. Il clima non è più spensierato come la sera precedente, ma c’è qualcosa di più intenso. Qualcuno di loro usa la parola “unità”. Dice ancora Daniela: «Ero arrivata ad Abu Gosh con questa domanda: che quei giorni potessero aiutarci a stringere di più tra noi. Qualche volta siamo litigiosi. Anche tra le tre comunità non ci sono molti legami». Spiega Lina: «Nei momenti più tesi ognuno era attento all’altro, ci si prendeva cura dei figli altrui quando si doveva andare nel rifugio. Siamo di popoli diversi, parliamo lingue diverse, eppure il linguaggio che usavamo era quello dell’unità».

A metà pomeriggio arriva la notizia che le frontiere con la Cisgiordania sarebbero state chiuse a tempo indeterminato. Chi vive a Betlemme rischia di non poter rientrare più. Si fanno in fretta le valigie. Si celebra di corsa la Messa. Prima di partire Lina guarda Hussam con le lacrime agli occhi e gli dice: «Non finisce qui. We are one». Padre Gianfranco prende il suo pulmino e si dirige verso il checkpoint. A bordo si sgrana il rosario. Racconta Lina: «Lui non ha il permesso per entrare nei Territori, così ci ha lasciato al confine aspettando finché non gli abbiamo detto che eravamo riusciti a passare la frontiera. È stato un gesto meraviglioso e ci è voluto del coraggio, perché la situazione era davvero pericolosa».

Chi rimane ad Abu Gosh non può fare a meno di parlare di ciò che sta accadendo. E le discussioni si fanno accese. Karen, a un certo punto, minaccia di andarsene. Poi ci ripensa. I pareri contrastanti non sono solo tra ebrei e palestinesi, ma anche gli italiani hanno posizioni diverse. Dice Hussam: «Venirne a una? E come è possibile? È già un miracolo che si possa discutere attorno a un tavolo come si fosse in famiglia. È ciò che ci ha messo insieme, ciò che ci unisce, che ci permette di discutere, anche se non siamo d’accordo». Dopo cena è in programma una serata sui canti del movimento. Mandy è venuta dall’Italia apposta con Antonio e Luciano. Musica e parole illuminano la sera di una giornata tremenda. Karen confessa all’amica che l’ha invitata: «Ti voglio più bene di prima, perché siamo insieme per qualcosa di più grande». A Lina, già a Betlemme, arrivano i video di qualche canto. Lei risponde: «Nonostante tutto quello che sta accadendo, vi ringrazio dal profondo del cuore per il tempo di qualità che abbiamo trascorso insieme».

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Il giorno dopo ognuno torna a casa sua, alla vita di tutti i giorni in Paesi in guerra. Ma le chiamate e i messaggi, tra Haifa e Gerusalemme, si fanno più frequenti per avere aggiornamenti, per sentire se tutto va bene. Al Nord si teme l’attacco di Hezbollah. A Gerusalemme i missili di Hamas. A Betlemme si guarda al cratere che è diventata Gaza. È un film già visto. Ma questa volta il volume è più alto. Il dolore più acuto. Il senso di ineluttabilità e impotenza più lacerante. Un po’ intontiti dal dolore, ci si aggrappa alle parole del cardinale Pierbattista Pizzaballa: «La domanda in questi casi non è “dov’è Dio?” ma “dov’è l’uomo?”. Dio è qui, è presente. È il momento in cui dobbiamo rivolgerci a Lui. Cosa abbiamo fatto della nostra umanità, cosa abbiamo fatto della nostra vocazione al rispetto dei diritti, delle persone? Queste sono le domande che ci dobbiamo fare. In questo momento, i cristiani devono innanzitutto guardare Cristo, che è l’uomo concreto, altrimenti restano nel vago. Gesù come presenza reale che cambia la vita».