(Foto Pedro Marques Pereira)

Meeting Lisboa. L'incanto della speranza

Intelligenza artificiale, la conversione di Péguy, il lavorare nel XXI secolo, l'infinito di Pessoa, la molla di Andrea Mandelli, la ricerca del bene dentro il Gulag... Nella Capitale portoghese, due giorni, l'11 e 12 novembre, per abbracciare tutto
Frederico Meira

«Cinque minuti prima della prima messa del movimento, è nato il canto del movimento. L’inizio del canto del movimento è l’inizio del movimento. Non c’è differenza. Nasce il movimento e si canta». L’inizio del primo giorno del Meeting Lisboa mi ha subito ricordato le parole di don Giussani. Sono stato sopraffatto dall’emozione quando sono entrato nel salone per assistere (inaspettatamente) a uno spettacolo che raccontava la mia storia: il mini Meeting. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo. C’erano gli alunni del Colégio de São José do Ramalhão (del sesto e settimo anno) che, con l’aiuto dei loro insegnanti, hanno pensato di coinvolgerci in un momento di canto nato dall’esperienza dell’incontro con don Giussani e padre João Seabra.

È proprio così, inizia il Meeting e inizia il canto; non c’è modo migliore di esprimere la gratitudine per ciò che abbiamo incontrato che attraverso il canto. Mi ha colpito questo primo momento del fine settimana perché quei ragazzi avevano davvero qualcosa da insegnarmi: sarò tanto più uomo quanto più vivrò con semplicità di fronte alla realtà, cioè quanto più imparerò a cantare come quei bambini.

L’incontro del mattino sull’intelligenza artificiale ci ha aiutato ad approfondire il tentativo di identificare i tratti caratteristici dell’essere umano. La macchina può sostituire l’uomo? L’uomo possiede una forma di conoscenza che la macchina non potrà mai avere: quella che si ottiene attraverso un rapporto con l’oggetto, dove imparo il suo significato. Anche il patriarca monsignor Rui Valério ci ha aiutato in questo lavoro. Così ha aperto l’incontro: «L’uomo può vivere in comunione, in rapporto con l’altro; questo è un aspetto che la macchina non sarà mai in grado di imitare».

Nell’ultimo incontro del primo giorno ci ha raggiunto il vescovo di Lamego, monsignor António Couto, per un dialogo sul tema del Meeting, “Ciò che mi stupisce è la speranza”. Il vescovo ha esordito ricordando il dialogo di Geremia con Dio nel primo capitolo del Libro del profeta Geremia. Alla domanda di Dio «Che cosa vedi, Geremia?», Geremia rispose «Vedo un ramo di mandorlo». Dio allora rispose: «Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla». Il mandorlo, infatti, è il primo a sbocciare in inverno ed è quindi un segno di speranza, perché preannuncia ciò che accadrà a tutti gli altri: con il giusto impegno e la cura adeguata, tutti fioriranno a loro tempo.

Non a caso alla fine della giornata ci è stato confermato (o ricordato), attraverso le parole del vescovo, che la promessa di Dio è ancora viva: «Hai visto bene», in altre parole, non ti sei sbagliato, quello che vedi accadere davanti a te non è frutto della tua immaginazione. Il mandorlo in fiore sta sbocciando ora, nella circostanza presente. Per questo mi ha colpito anche ciò che ha detto il Vescovo alla fine dell’incontro: siamo chiamati a una semplicità, a lasciare che la nostra vita lasci trasparire la certezza che il mandorlo sta fiorendo. Più che a limitarci a cercare una dimostrazione di come questo avviene, il Vescovo ci ha invitato a esporci, a rischiare di verificare nella nostra vita che la promessa preannunciata dal mandorlo in fiore è vera, perché si sta realizzando già oggi.



Questa stessa semplicità era ciò che definiva la vita di Péguy, su cui i nostri amici hanno allestito una bellissimo spettacolo che ha concluso la giornata di sabato. Una volta, quando un amico gli chiese della sua conversione, Péguy rispose: «Ho sempre seguito la stessa strada, ed è questa che mi ha portato dove sono». Rischiando di seguire ciò che gli stava accadendo, ha finito per riscoprire la sua fede – come disse lui stesso – «in un avvenimento. Quando accade, accade per sempre». Questo incontro con il cristianesimo partiva dei fatti della realtà, come diceva lui stesso, e non ha tolto nulla alla sua umanità; anzi, è rimasto se stesso, pur dentro una novità di vita.

La domenica si è aperta con l’incontro “Lavorare nel XXI secolo: a che scopo?”. Bernhard Scholz, presidente del Meeting di Rimini, ci ha raccontato come nella sua vita, di fronte al problema del lavoro, emerga la domanda ultima: e io chi sono? Perché il lavoro non diventi a un certo punto un’alienazione dalla realtà, devo pormi una domanda sul significato di ciò che faccio. In realtà, questa domanda emergerà sempre. Scholz ha fatto un esempio: per pagarsi gli studi, ha lavorato per vari mesi cambiando lampadine tutto il giorno; era un lavoro faticoso e non gli piaceva molto. Dove posso trovare la forza di continuare, di non abbandonare l’idea di studiare? Devo chiedermi ancora una volta: che senso ha, perché lo sto facendo?
Nuno Pinto Magalhães, l’altro relatore dell’incontro, ha fornito una traccia: il gusto, la passione per il lavoro si scopre “sporcandosi le mani”. Impegnandomi in ciò che faccio, scopro, ha continuato Scholz, che la risposta alla domanda “Perché lavoro?” non si trova nel lavoro stesso. Il cristianesimo mi indica la strada: non dipende da ciò che faccio, ma dal significato di ciò che faccio.

La mostra che ha dato origine all’incontro illustrava molto bene questo punto. All’“io performativo” che ci propone il mondo di oggi, un io che si misura in base a ciò che è in grado di realizzare, il cristianesimo risponde offrendo un’ipotesi radicalmente diversa. Se io mi riconosco amato infinitamente, incondizionatamente, divento più creativo, più efficace, più intelligente nei confronti della realtà. Di conseguenza, posso cogliere più facilmente nel mio lavoro quel significato che ho già intuito nella mia vita attraverso l’amore di cui sono oggetto.

Questa stessa ricerca di significato è una delle caratteristiche principali di un’altra mostra di questa edizione del Meeting, “Se voglio, voglio l’infinito”. La storia dell’incontro che alcuni di noi (me compreso) hanno avuto con Fernando Pessoa nasce dal riconoscimento che, come lui, anch’io cerco innanzitutto una risposta al grido del mio cuore. C’è in me una tensione strutturale a scoprire “l’eterna novità del mondo” in ogni momento e in ogni piccola cosa.

Una delle intuizioni che mi commuove di più in tutta la poesia di Pessoa è che questa strada per scoprire chi sono non può essere percorsa da soli. Ci vuole qualcuno, un amico, perché io continui a camminare. È impressionante vedere come Pessoa scriva la seguente poesia dopo aver dubitato quasi costantemente dell’esistenza di questo cammino:

L’amore è un compagno.
Non so più come camminare solo lungo i sentieri,
perché non posso più camminare da solo.

“Il pastore amorevole”, Alberto Caeiro

Pessoa scrisse questi versi dopo essersi innamorato di Ofélia Queiroz, con la quale ebbe poi una relazione. Infatti, quando qualcuno si rende conto di essere amato, scorge nella vita dei segni di speranza. L’amore che ha cercato per tutta la vita è qualcosa di concreto: si incontra attraverso le persone, in carne e ossa, che camminano fianco a fianco con me.
La prova vivente che nel cuore umano c’è qualcosa di irriducibile è la storia di Andrea Mandelli, raccontata in un’altra delle mostre: “Ti regalo la mia molla”. Andrea ha colto un punto drammatico della vita: abbracciare le circostanze significa abbracciare Cristo. Ecco perché questo ragazzo ha vissuto la malattia che lo ha portato alla morte a diciannove anni in modo totalmente nuovo, perché aveva chiara la coscienza che la sua vocazione passava di lì.

Nulla della sua umanità è andato perduto, al contrario: è impressionante pensare che, dentro al dolore che stava vivendo, quando era in ospedale chiedeva sempre dei suoi amici. Aveva con loro un’amicizia così profonda da fargli dire: «Ciò che mi manca di più nella situazione in cui sono è la presenza fisica di Cristo che è in voi». Allo stesso modo, la sua malattia è stata un’occasione per rendersi conto che tutta la realtà è interessante, perché tutta è occasione per conoscere meglio me stesso, cioè per cogliere come in ogni cosa ci sia un rapporto con il significato della vita. Lo studio, che era sempre stato un punto difficile per Andrea, è diventato centrale durante il periodo di degenza, e lo ha vissuto con un impegno totalmente nuovo.

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Le parole tanto familiari per Andrea: «Attenzione. Pericolo di vita e di morte. Sempre» ci aiutano a introdurci nell’ultimo incontro del Meeting di quest’anno, “Uomini nonostante tutto”, sull’Associazione russa Memorial, nata con lo scopo di mantenere viva la memoria di tutti coloro che hanno perso la vita o sono semplicemente “scomparsi” durante gli anni del regime comunista. Esiste sempre, di fatto, la possibilità di vivere, anche nelle circostanze più avverse come il GULag, una vita vera, che cerca qualcosa.

Come è stato detto durante l’incontro, le storie dell’archivio di Memorial sono la storia della ricerca del seme di bene che l’uomo rappresenta sempre. Sempre! Perché, nonostante tutto, l’uomo rimane tale. La mostra, nei tanti esempi che presenta, attesta che questo miracolo avviene: qualcosa sovverte la logica meccanica del male. Le testimonianze delle persone interrompono questa logica. In tante di esse, vediamo come il desiderio di un affetto autentico per il figlio o per la moglie non sia andato perduto, ed è per questo che vale la pena rischiare la vita per preparare qualcosa per loro (un capo di abbigliamento, un disegno). Come diceva Marta dell’Asta: «La speranza non sta nel fatto che l’uomo non sbaglierà mai, ma nel fatto che ricomincia sempre. Le ragioni di tale speranza stanno nelle persone».