Una via di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza (foto Bashar Taleb/APA Images/Ansa-Zumapress)

Terra Santa. Quel «grazie» inattaccabile

Dall’accoglienza degli sfollati alla compagnia quotidiana del Papa, cosa stanno vivendo i cristiani di Gaza? A due mesi dall'inizio del conflitto, su "Tracce" di dicembre, parla padre Gabriel Romanelli, parroco dell’unica chiesa cattolica della Striscia
Maria Acqua Simi

Nella spoglia chiesa della Sacra Famiglia di Gaza, l’unica parrocchia cattolica di tutta la Striscia, le voci dei bambini si alternano ai sibili dei missili. In ginocchio, tutte le mattine, consegnano a Gesù le loro preghiere. Lo fanno, racconta il parroco padre Gabriel Romanelli, con la fiducia che è dei piccoli. Totale. E i grandi li guardano. Li guardano i loro genitori - che vorrebbero farli sentire al sicuro ma sono impotenti -, li guardano le catechiste, le suore, il vicario padre Youssef Asaad, li guardano gli oltre 700 sfollati accolti tra quelle mura. E li guarda anche il Papa.

«Ogni giorno, da quando è iniziata questa guerra, il Santo Padre si collega con noi per pregare insieme e dare la sua benedizione. Non abbiamo altra forza se non la celebrazione della Messa quotidiana: lì è scolpita la nostra certezza. Perché per noi la fede è una certezza. Non è sensibilità, emozione. Per noi la fede è la certezza che se Dio sta permettendo questo è per un bene maggiore. Un bene che noi non vediamo immediatamente perché abbiamo gli occhi offuscati dalle lacrime, a volte magari non arriviamo a sentire subito cosa ci sussurra lo Spirito Santo perché il rumore delle bombe e delle grida sembra essere più forte. Ma nei dialoghi che sto avendo con la mia gente posso assicurare che non trapela mai l’odio. Anche i bambini lo sanno: hanno paura, sì, ma è una paura che sanno a Chi affidare. La nostra speranza concreta è in Cristo che è nato, ci ha scelti come amici, ed è morto per noi». Padre Gabriel ha il sorriso stanco ma costante in questa intervista che sarebbe dovuta durare pochi minuti e che per grazia è andata avanti per oltre un’ora nonostante i blackout e per la pazienza di un sacerdote che non ha nulla altro da offrire «se non ogni istante che il buon Dio mi concede di vivere». Si collega da Gerusalemme, perché rientrare a Gaza gli è stato finora impedito, ma è costantemente in contatto con i suoi.

Padre Gabriel Romanelli (Foto Latin Patriachate of Jerusalem)

Racconta che un anno fa, proprio in occasione del Natale, era stato fatto un censimento del numero di cristiani nella Striscia di Gaza. «Eravamo 1.017. Dopo l’esplosione del conflitto, siamo rimasti in 999. Tutti abbiamo perso qualcuno che conosciamo, a tutti noi è chiesto misteriosamente di stare di fronte al dolore e alla morte. E anche alle domande che nascono inevitabilmente davanti alla sofferenza degli innocenti, di chi non ha colpe». Parla dei bambini che frequentano le scuole gestite dal Patriarcato latino di Gerusalemme, delle famiglie che ha sposato e che ha visto formarsi negli anni, degli anziani e dei tanti disabili (c’è un nutrito gruppo di bambini tra loro) curati e seguiti dalle suore di Madre Teresa. «Non è un problema secondario la disabilità», spiega, «perché se si è confinati all’interno di un territorio da cui è difficilissimo entrare o uscire, ci sono spesso matrimoni tra persone imparentate con conseguenze facilmente immaginabili».

La parrocchia latina è piccola, 135 cattolici in tutto, ma molto unita e attiva. Una presenza che si concretizza sul territorio attraverso tre scuole cattoliche aperte a chiunque, dieci gruppi parrocchiali e numerose attività al servizio di tutta la popolazione di Gaza: dall’assistenza sanitaria agli anziani e ai disabili, alla distribuzione di generi di prima necessità fino alla cura dei cosiddetti “bambini farfalla” affetti da una rara malattia genetica, l’epidermolisi bollosa, che provoca gravi lesioni della pelle e delle mucose interne. Per questa carità la comunità cristiana, pur rappresentando una minoranza invisibile, è stimata da tutti.

Anche padre Gabriel è molto conosciuto in Terra Santa, dove ha servito prima come docente al seminario del Patriarcato e poi come parroco a Gaza insieme all’amico padre Youssef e a due suore dell’istituto Serve del Signore della Vergine di Matarà. «Sono due sorelle gemelle, del Perù, consacrate trent’anni fa e che per la prima volta si sono ritrovate nella stessa missione».

Cristiani in preghiera nella chiesa della Sacra Famiglia di Gaza, durante il conflitto

La sua chiamata al sacerdozio arriva presto, a 12 anni. «Vivevo a Buenos Aires. In parrocchia e in famiglia pregavamo ogni giorno per la gente che soffriva sotto l’oppressione dell’Unione Sovietica. Facevamo la Via Crucis il venerdì, e ogni stazione era offerta per una nazione o un gruppo di nazioni dove i cristiani erano perseguitati. Aver respirato questo da bambino ha nutrito il mio desiderio di essere missionario. A 18 anni entrai nel seminario della congregazione del Verbo Incarnato a San Rafael. Dopo qualche tempo diedi la mia disponibilità per andare a servire in qualche Paese ex Urss o in Cina, ma i miei superiori mi proposero la Palestina. La terra di Gesù. Fui sorpreso, pensavo fosse una meta per sacerdoti più esperti, in fondo avevo solo 25 anni. Invece, proprio in quel periodo, il mio superiore aveva chiamato l’allora patriarca Michel Sabbah per dirgli che il nostro ordine non aveva da offrire aiuti materiali ma, avendo ricevuto per bontà di Dio il dono di alcune nuove vocazioni, le metteva a disposizione per servire quella che Giovanni Paolo II aveva definito “la Chiesa Madre di Gerusalemme”».

Ventotto anni dopo, il sacerdote è ancora lì. Ha visto le tensioni riaccendersi a fasi alterne, ha conosciuto i torti e le ragioni di tutte la parti in causa, ma soprattutto ha osservato fiorire la presenza cristiana in Terra Santa. Anche adesso. «Sembra una contraddizione, lo so. In queste settimane molti di noi hanno perso in maniera violenta i propri cari, le case, le attività. I bombardamenti non hanno risparmiato neanche le chiese, come quando è stata colpita la struttura parrocchiale adiacente a quella antichissima di San Porfirio che ospitava centinaia di sfollati. La gente vaga per strada impaurita, qui non ci sono rifugi anti-missile, spesso mancano energia e acqua. Ma l’odio non riesce a intaccare il cuore dei miei parrocchiani. Non è accaduto prima e non accade ora. Per questo la presenza cristiana è così preziosa. Affermiamo una logica, quella della croce, che è l’unica capace di dare speranza. La croce va abbracciata, venga come venga».

Cosa vuol dire? Come è possibile abbracciare il corpo freddo di un figlio ucciso e perdonare? Le domande affiorano insistenti, nervose. La risposta è pacata. «Il dolore è enorme, e a noi è chiesto di attraversarlo, di viverlo. A tutti prima o poi è chiesto. A tutti, in qualunque circostanza. Anche Gesù fu solo nel Getsemani, anche lui ha avuto paura, ha pianto, si è sentito solo. Ma nella sua Passione ha offerto tutto per il bene del mondo: “Non come voglio io, ma come tu vuoi”. Ecco la rivoluzione! Non sono le nostre logiche a salvarci. Per far crescere la nostra fede, perché noi possiamo resistere anche quando tutto sembra buio, Dio ci ha offerto un’amicizia. Lui è nato ed è venuto sulla Terra per condividere: mangiava con i pescatori, camminava con la povera gente, parlava con i bambini. Ha offerto una compagnia e questo ha portato il bene. Duemila anni dopo, con lo stesso identico metodo, noi possiamo conoscerLo e riconoscere quando ci chiama ad amare, a perdonare, a servire. Non è difficile immaginare quanto potremmo facilmente sperimentare, qui, l’odio o il rifiuto di certe persone. Invece accade qualcosa che ha del miracoloso: non diamo spazio all’odio ma a Dio. Noi, che viviamo in comunione con Lui, ogni giorno facciamo un’ora di adorazione, ci confessiamo, celebriamo la Messa, da questo prendiamo la forza. Così possiamo essere sempre al servizio di tutti: musulmani, drusi, ebrei… Quando accogliamo qualcuno in casa o in chiesa o a scuola, sappiamo che accogliamo Gesù nella sua misteriosa presenza. Oggi che ospitiamo oltre 700 sfollati non è diverso: è Lui che non manca mai di venire a trovarci».

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Il perdono - continua - è qualcosa di rivoluzionario, ma è frutto di una fede radicata. «Se la nostra fede fosse solo pura emozione, non potremmo oggi perdonare, sperare, saremmo in preda alla disperazione. Il dolore è tanto, ma mai ho sentito qualcuno dei miei maledire Dio. Mai. Pochi giorni fa una professoressa, cristiana ortodossa, di una delle nostre scuole ha scritto una lettera impressionante. Ha perso la mamma e il papà in un bombardamento dove lei è rimasta ferita, tanto che ora è ricoverata in parrocchia da noi. Alla fine della lettera chiede a Dio di essere la sua luce, di aiutarla a non cedere alla rabbia. Termina dicendo: “Dammi la Tua misericordia. E grazie”. Ringrazia Dio. Questo non significa essere un popolo di rassegnati o di folli: chiediamo soluzioni concrete come l’apertura dei canali umanitari, la fine della guerra, continuiamo a sostenere insieme al Papa la soluzione “due popoli due Stati” e che venga considerato uno status speciale per Gerusalemme anche se sappiamo che è una proposta al momento difficilmente realizzabile. Stiamo soffrendo perché amiamo tanto. Tanto più grande è l’amore, tanto più grande è il dolore. Ma il calvario non è la fine. La consolazione che sperimentiamo è più forte. Perché il calvario ci porta vicino alla sepoltura di Cristo, ci avvicina alla sua Resurrezione. Ci sentiamo abbracciati da Cristo. E, come ha detto il cardinale Pizzaballa, preghiamo e digiuniamo insieme a voi, perché questo abbraccio possiamo restituirlo e non abbiamo a perderlo mai».