Una delle ultime edizioni del New York Encounter (Foto NY Encounter)

L'intelligenza artificiale e l'anima addormentata

Al via venerdì 16 febbraio il New York Encounter 2024. Tra i protagonisti al Metropolitan Pavilion di Manhattan anche una mostra dedicata all'IA. Davide Bolchini, curatore, spiega di cosa si tratta e come è nata
Luca Fiore

“Spalancando l’anima addormentata”: è questo il titolo, una frase di Gregorio Magno, dell’edizione 2024 del New York Encounter. Il Metropolitan Pavilion, il centro congressi di Chelsea, a due passi dall’iconico Flatiron Building, tornerà ad animarsi dal 16 al 18 febbraio per una nuova edizione della manifestazione organizzata dalla comunità di CL negli Stati Uniti.
«Cosa sta succedendo alla nostra umanità?», si domandano gli organizzatori nel testo di presentazione del tema: «I motivi per riflettere su questa questione non mancano. Immagini quotidiane di violenza gratuita, un’epidemia di suicidi, il sentirsi soffocati dall’imporsi di ideologie contrapposte e del loro linguaggio (a partire dalla scuola), la potenziale minaccia dell’Intelligenza artificiale generativa, il senso di paralisi di fronte al futuro, la sofferenza e il male privi di significato o redenzione, la stanchezza generale, il malessere, l’intorpidimento e la mancanza di desiderio... Questi segni suggeriscono che la nostra umanità è addormentata. Cosa può risvegliarla?». Dibattiti, mostre e spettacoli proveranno a dare respiro a interrogativi che sembrano essere, negli Stati Uniti certo ma a ogni latitudine, sempre più urgenti. Un programma ricco che trovate qui. Tra i temi che negli ultimi mesi hanno fatto più discutere - a cui è dedicato anche il numero di Tracce di Febbraio - c’è quello dell’Intelligenza artificiale. L’Encounter vi ha dedicato una mostra intitolata “AI and I: Wonder, Create, Work” (“L’Intelligenza artificiale e l’io: meravigliarsi, creare, lavorare”). Ne abbiamo parlato con il curatore Davide Bolchini, preside della Luddy School of Informatics, Computing, and Engineering dell’Università dell’Indiana di Indianapolis.

Come è nata la mostra?
Alla fine della scorsa edizione del New York Encounter ne parlavo con alcuni colleghi che lavorano come me in università: ChatGPT era già usato da colleghi e studenti e il fenomeno poneva molti interrogativi. Abbiamo pensato che l’Encounter fosse un luogo privilegiato per parlare di questo tema andando veramente a fondo del nostro rapporto con questi nuovi strumenti tecnologici. Discutendo con gli organizzatori dell’Encounter e altri amici del settore con cui ho lavorato alla mostra, è emersa la grande domanda su cui abbiamo cercato di far ruotare il percorso della mostra.

Quale domanda?
Come diceva Melvin Krantzberg, uno storico della tecnologia, la tecnologia non è né buona né cattiva, ma non è neppure neutra. Per sua natura essa apre, mette in luce nuovi orizzonti, ma necessariamente ne fa tramontare altri, o li mette in discussione, spesso in modo potente. Quando hai degli strumenti che sembrano replicare il prodotto dell’attività umana, o almeno sanno fare quello che io chiamo una first draft of anything, una bozza su qualsiasi cosa, e sono destinati a farlo sempre meglio, c’è qualcosa di irriducibile nel contributo dell’uomo? C’è qualcosa che la macchina non può replicare? Se il prodotto dell’attività creativa è riproducibile, l’uomo che cosa porta?

La mostra si intitola “l’IA e l’io”.
Sì, perché andando in fondo alla domanda su quale sia il contributo insostituibile dell’uomo si arriva ad interrogarsi su che cosa sia l’io.

Come avete deciso di procedere?
La prima constatazione è che si parla molto di Intelligenza artificiale generativa, ma pochi ne hanno un’esperienza diretta. Così il primo passo del nostro percorso è quello di far provare alcuni strumenti a disposizione oggi, sperimentando degli esempi del loro utilizzo a seconda delle esigenze che si hanno, se si è uno professore, uno scienziato, un professionista… Poi cerchiamo di spiegare i modelli che fanno funzionare queste applicazioni, che sono essenzialmente di natura statistica.

In che senso?
Significa che il testo che viene generato come risposta si forma in base al calcolo delle probabilità con cui le parole stanno insieme nei testi di senso compiuto già esistenti. ChatGPT non sa che cosa ti sta rispondendo, ma sa che il testo che ti fornisce ha un’altissima probabilità che sia di senso compiuto in relazione alla domanda che gli hai posto. E i risultati sono davvero sorprendenti.

Ma ormai è risaputo che ChatGPT non è affidabile.
Ma è interessante capire perché non lo è. Si tratta di sistemi quasi imbattibili nel generare contenuti su qualunque argomento, nel dare idee su tutto, a anche nel risolvere problemi in pochi secondi, ma è chiaro che non hanno nessuna comprensione delle informazioni che ci danno. Tanto è vero che in alcuni casi siamo di fronte ad “allucinazioni”: risposte false, ma talmente plausibili che potrebbero essere vere.

Ad esempio?
È capitato che ChatGPT desse come riferimenti degli articoli di giornalisti di testate anche importanti, ma che non sono mai stati scritti. Oppure, almeno le prime versioni, non sapevano fare dei ragionamenti che a noi sembrano semplici. Se ad esempio dici: «Se una maglietta bagnata ci impiega un’ora ad asciugare, quanto ci vuole per farne asciugare tre?». Il sistema ti risponde che occorrono tre ore. Oppure: «Il mio gatto era vivo alle 10. Si è sentito male alle 16. Il gatto era vivo alle due del pomeriggio?». L’algoritmo risponde: «No». Il sistema statistico non fornisce alla macchina il senso comune o, in ogni caso, il senso della realtà. Questo perché l’intelligenza, per dirla con san Tommaso, ha molto a che fare con la verità, che è adaequatio rei et intellectus. Cioè corrispondenza tra la mente, o il linguaggio, e la realtà.

Dunque la macchina è stupida.
Ma questi, in fondo, sono limiti che si potrebbero anche superare in versioni più sofisticate di questi strumenti. Ci sono questioni ancora più profonde. Nella mostra facciamo l’esempio di Vauhini Vara, che è una delle prime scrittrici professioniste ad aver sperimentato l’IA generativa nel processo di creazione di un romanzo. In un articolo su Wired ha spiegato che da tempo voleva scrivere un libro su ciò che aveva sperimentato con la morte della sorella, ma non ci riusciva. Lo ha fatto con l’aiuto dell’IA e molte persone si sono ritrovate nella descrizione dell’esperienza del dolore. Però la Vara aggiunge: «Ma io so che quello che c’è scritto nel libro non corrisponde a ciò che ho vissuto». E aggiunge: «Scrivere è comunicare una possibile espressione di una particolare coscienza, una certa esperienza del mondo, che è unica». Quindi ciò che creo non dipende solo dal raffinamento delle parole del testo, ma è il tentativo di «chiarire cosa è il mondo dal punto in cui io lo osservo». E questo non ha nulla a che fare con il metodo statistico utilizzato dall’IA per generare testi. Manca una “coerenza” che deriva da una relazione intima, irripetibile con la realtà.

È questa relazione con la realtà che ci distingue dalle macchine?
Il grande linguista Noam Chomsky ha scritto un bellissimo articolo all’inizio dell’anno scorso, in cui diceva, in sintesi, che ogni atto creativo dell’uomo, per definizione, ha in sé un elemento di moralità. Cioè la creatività implica il desiderio di dare un contributo al mondo. È il tentativo - come diceva Steve Jobs, to make a dent in the universe - di scalfire il mistero.

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E il mistero non riesci a farlo entrare in un database…
Come abbiamo spiegato nella mostra, c’è un bellissimo dialogo di Platone in cui Socrate e Fedro discutono del rapporto tra vita ed espressione “tecnica” o artistica, che può essere anche la scrittura o la pittura. Le opere delle mani dell’uomo, si dice a un certo punto nel brano, sembrano avere elementi di vita e sembrano parlarti. Ma se cerchi di interrogare quei manufatti, essi non ti rispondono. Socrate dice: la produzione artistica è soltanto un’immagine muta di un’anima al lavoro. Allora il tema è, tornando a oggi e al rapporto con i prodotti della tecnologia contemporanea, che cosa decidiamo di delegare a queste immagini.