Carlo Wolfsgruber

Carlo Wolfsgruber. Marcia continua

Quale fu il seme piantato da don Giussani nel Sessantotto? Uno dei suoi primi allievi racconta su "Tracce" di settembre il suo percorso dentro il cammino di CL. Tra cultura borghese, Potere Operaio, equivoci politici. Fino a quegli universitari di oggi...
Luca Fiore

«Nel Sessantotto avevo ventisette anni. Ero ricercatore di ruolo nel Cnr, il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Ero entrato nei Memores l’anno precedente». Comincia così il racconto di Carlo Wolfsgruber, 77 anni, tra i primi allievi di don Giussani al Berchet e i primi Memores Domini, l’esperienza dei laici dedicati a Cristo nata dal carisma di CL, di cui è stato tra i responsabili fino a poche settimane fa. Ha visto da protagonista tutto lo svolgersi della vita del movimento. E, in particolare, lo snodo decisivo del 1968: quello che vide l’emorragia della maggior parte degli appartenenti all’allora Gioventù Studentesca.

Furono gli anni in cui don Giussani ricominciò da alcuni che, come disse lui stesso, «rimasero fedeli alla loro storia». Fu la crisi più profonda della vicenda di Comunione e Liberazione. A Wolfsgruber abbiamo chiesto come il seme piantato da Giussani in quegli anni è germogliato. Perché è allora che il sacerdote brianzolo mise a fuoco il nucleo della proposta attorno al quale, poi, si è svolta la vita del suo movimento: «Tradizione e discorso non possono più muovere l’uomo di oggi. Come è cominciato il cristianesimo fu un avvenimento per una presenza, per un incontro». Quelle parole vibrano oggi della stessa forza di provocazione. Per CL, in un certo senso, il Sessantotto non è ancora finito.

«Sì, ero già nei Memores, anche se non ero ancora nella prima casa, quella a Gudo, dove entrai alla fine del 1969. Ma frequentavo, contemporaneamente, un gruppo di extraparlamentari maoisti». Una volta, racconta, era andato a Torino per iniziare un gruppuscolo di Potere Operaio nell’ambiente dei ricercatori scientifici e lì conosce, tra gli altri, Marco Donat-Cattin, che poi finì tra i terroristi di Prima Linea.

Don Giussani con un gruppo di giovani a Varigotti nel 1969. Quello accanto a lui è padre Emmanuel Braghini (©Fraternità di CL)

La traiettoria di Wolfsgruber è contraria a quella di molti suoi compagni che incontrarono don Giussani negli anni Cinquanta. Lui, finito il Berchet, si iscrive a Chimica a Pavia, dove GS non c’è. Quasi senza accorgersi, si allontana dagli amici e si avvicina ai gruppi marxisti.

È alla metà degli anni Sessanta che rientra in contatto con i compagni del liceo. Complice anche un episodio accaduto in uno degli incontri di Potere Operaio. «Un giorno, quasi senza pensarci, dissi che io “avevo incontrato Cristo”. Quelli reagirono, mi diedero del pazzo. E io risposi che no, non ero pazzo». In quel modo riemerse in lui la consapevolezza di ciò che gli era accaduto.

Tra le persone del movimento da cui Carlo ritorna ci sono gli amici che stanno iniziando a verificare la possibilità di consegnare la vita a Cristo. I Memores Domini non esistono ancora, o meglio, sono una realtà allo stato embrionale che viene chiamata soltanto Gruppo Adulto. Ma nel frattempo, nonostante i litigi con gli amici extraparlamentari, la passione politica, alimentata dal clima della contestazione, è ancora vivissima in lui. Anzi, radicale. «C’è stato un momento in cui mi invitarono ad entrare in clandestinità, che era il passo prima della lotta armata». Va da don Giussani e gli espone il teorema: è giusto sparare ai ricchi per aiutare i poveri. «Lui mi disse due cose. La prima, che ammazzare è sempre sbagliato. Ma fu la seconda a toccarmi di più: “Non potresti più andare in caritativa in Bassa. Quello non lo puoi lasciare… Non è giusto. Continua ad impegnarti con quello che hai già iniziato”». Carlo seguiva, in effetti, un doposcuola per ragazzi delle Medie a cui teneva molto: «Da sempre ho avuto l’idea che un modo per essere solidali fosse l’educazione, la scuola».

Che possano convivere nella stessa persona due spinte così contrarie, la dedizione totale a Dio nella verginità e il pensiero della lotta armata, oggi appare impossibile. Eppure, nei ricordi di Wolfsgruber, che anche nella dozzina (o poco più) di membri del Gruppo Adulto l’orizzonte, in fondo, fosse lo sforzo politico e sociale è confermato da un altro episodio. «Ai nostri Esercizi spirituali di uno di quegli anni, Giussani a un certo punto disse: “Se uno di voi ora si alzasse e dicesse “io amo Gesù”, tutti voi lo tacitereste in modo violento”. Ed era vero, almeno per me un’espressione simile era inaccettabile, e forse quasi tutti la sentivamo come una forma di pietismo. E lui aggiunse: “Dobbiamo fare un cammino che ci porti al punto che, se uno dicesse così, ne saremmo tutti edificati”». Per Wolfsgruber, il fondatore di CL aveva chiaro già da subito l’equivoco, «ma noi eravamo lontanissimi dal capire».

(© Claude Dityvon)

Sono mesi di grandi discussioni. L’attrattiva per la politica, così come era concepita dal mondo della contestazione, restava forte. «Dovetti arrivare al 1970 per liberarmi definitivamente da quella tentazione. Fu quando Giussani introdusse l’espressione “memoria di Cristo”».

Ma prima? Che cosa era successo per arrivare a quella incomprensione? «L’incontro con Cristo, attraverso il movimento, mi aveva mostrato un’alternativa reale al borghesismo di tutti. Era il fascino per un ideale». L’ideale di cambiare il mondo. Anche don Giussani parlava di cambiamento del mondo, spiega Carlo: ma non in termini rivoluzionari. «Che il cristiano avesse a cuore il destino di tutti, io l’avevo sentito dire per la prima volta in GS. Mi si spalancarono tutte le categorie cristiane, di fronte alle quali io capivo che c’era qualcosa di nuovo rispetto al tipo di cultura borghese della mia famiglia».

Oggi l’espressione “cultura borghese” è coperta da una coltre di polvere che la rende ormai incomprensibile da chi ha meno di trent’anni. «È l’idea che ognuno si fa i fatti propri. Il problema della vita è la facciata, la rispettabilità in società. È l’avere i soldi, la macchina. Il borghesismo è ricercare il proprio comodo». Ma i leader della contestazione erano giovani figli di quel mondo, la cui forma mentis, in fondo, non era cambiata, spiega Wolfsgruber: «Avevamo avuto un’educazione a questa specie di compostezza sociale che rasentava l’ipocrisia. Una cosa che i ragazzi di oggi non hanno. Noi abbiamo fatto finta di non essere ipocriti, mentre lo eravamo».

Eppure, allo stesso tempo, i giovani che seguivano don Giussani sentivano di aver incontrato qualcosa di eccezionale: «A 17 anni avevo il tremore e la gioia nel cuore, perché sapevo di portare il segreto del mondo. Era il motivo per cui sentivamo inadeguata la generazione precedente. Ma il segreto del mondo, per me, era diventato quasi subito un valore da rinfacciare a chi non lo perseguiva e non lo accettava». È questo l’humus su cui sarebbe attecchita l’ideologia. E che avrebbe portato tanti giessini nelle braccia del Movimento Studentesco, prima, e a perdere la fede, poi.

«Giussani mi disse due cose. La prima, che ammazzare è sempre sbagliato. Ma fu la seconda a toccarmi di più: "Non potresti più andare in caritativa in Bassa. Quello non lo puoi lasciare… Non è giusto"»

Impressiona la lucidità dei giudizi di Giussani mentre i fatti si svolgono. Come quando, nel novembre 1967, dice in un raduno del Gruppo Adulto: «Se Cristo lo avessimo atteso giorno e notte, anche l’atteggiamento dei nostri nella loro convivenza all’Università Cattolica sarebbe stato diverso. È stato generoso, ma quanto vero?». Wolfsgruber ricorda che un anno dopo, proprio nel Sessantotto, il sacerdote per la prima volta afferma che «non è più il tempo della tradizione». «Aveva chiarissimo che il punto su cui poggiare tutta la vita era Cristo, non si trattava però del Cristo ridotto a contenuto di una tradizione di valori, ma di una Presenza», spiega Carlo. Quell’estate segna una svolta.

Di quell’intuizione, espressa per la prima volta ai giessini di Rimini a Torello, parlerà nelle settimane successive al Gruppo Adulto, a un piccolo gruppo di preti e poi agli Esercizi del Centro Péguy. È un punto di svolta e, insieme, una preoccupazione che tornerà sempre. «Negli anni Ottanta lui parla esplicitamente di due tipi di fede. Quello per cui Cristo è un contenuto dottrinale e quello per cui è una persona presente qui e ora. Allora tutti assentivamo. Ma io capivo e non capivo. Ne presentivo la verità, ma non capivo. Quello che don Giussani voleva dirci ci sta sfidando a verificarlo ora don Julián Carrón. Di questo sono sicurissimo».

Racconta che l’estate scorsa ha ascoltato una testimonianza di alcuni universitari di CL. In loro ha visto la realizzazione di ciò che Giussani, nei primi anni, diceva dovesse essere il movimento. Si riferisce, in particolare, a una vicenda che gli ha ricordato le parole rivolte da Giussani a un preside di un liceo milanese, quando si disse contrario a che i cattolici prendessero il controllo delle associazioni studentesche uniche. Affermava il principio del pluralismo nella scuola. «Uno di questi ragazzi, avrà 23 anni, al direttore di un collegio che gli chiedeva la lista di ciellini da far entrare nell’istituto perché la nostra presenza potesse cambiare l’ambiente, ha risposto nello stesso modo: “A noi non interessa l’egemonia”». Ma a colpire Wolfsgruber non è tanto il merito del giudizio, che pure, dice, è sorprendentemente simile a quello del Giussani di quasi sessant’anni prima, o la spontaneità con cui quella posizione è emersa, «ma che la preoccupazione nel giudicare quella vicenda fosse innanzitutto la verifica della fede. Cioè: Cristo basta o no a sostenere la vita? Quelle parole le ho sentite come una ferita al cuore. È come se avessero bruciato sessant’anni di storia. Ho visto in quel ragazzo una libertà, un’umiltà, una fermezza… Oggi sono io quello a cui vien voglia di imparare da questi giovani».

Nel 1972 Giussani prova a fare un primo bilancio della grande crisi del Sessantotto. Le sue parole sono state pubblicate in un testo dal titolo La lunga marcia della maturità. E, a sentire Wolfsgruber, quel cammino, alla soglia degli ottant’anni, per lui non si è ancora concluso. Perché non ci sono certezze acquisite una volta per tutte. «Te ne accorgi quando scopri che accade quello che credevi di sapere. Lo sapevi, ma non pensavi che dovesse anche accadere. Da tanto che lo sapevi», e continua: «È diversissimo credere che Cristo c’è e accorgersi che Cristo c’è. Quando succede capisci che fino a quel momento era rimasto un estraneo. L’avevi fatto diventare una tua idea. Io ho cominciato ad accorgermene tra i 60 e i 65 anni. Mi sono detto: “Forse io sto confondendo Lui con tutto quello che ho fatto per Lui”. Ho dato tutto al movimento, ma questo non è Cristo. Cristo è molto di più!».

«Che il cristiano avesse a cuore il destino di tutti, io l’avevo sentito dire per la prima volta in GS. Mi si spalancarono tutte le categorie cristiane, di fronte alle quali io capivo che c’era qualcosa di nuovo rispetto al tipo di cultura borghese della mia famiglia»

L’altra cosa che negli ultimi anni lo ha messo radicalmente in discussione è l’arrivo, nella storia del movimento, di don Julián Carrón: «Io non riesco a darmi ragione del fatto che lui, che ha vissuto con Giussani meno di un anno, mi faccia capire Giussani meglio di quanto possa fare io che gli sono stato accanto tutta la vita».

Sempre nel 1972, Giussani diceva che «l’impazienza non è l’ultima trappola, è la prima». Si riferiva, certo, alla fretta di raggiungere la soluzione dei problemi sociali. Ma, probabilmente, anche a quella di pensare di aver capito cosa Dio stava operando. «Io ero entusiasticamente d’accordo con ciò che ci diceva Giussani. E con lui avevo anche un rapporto dialettico, se avevo obiezioni gliele facevo tutte. Una volta gli dissi: “Se mi accorgo che quel che ci dici dipende dal tuo carattere, dal tuo temperamento… mi hai fregato”. E lui: “Guarda che io ti do le ragioni”». E la risposta mi andò bene. Ma quali erano queste ragioni, per me? Erano ragioni ridotte a valori. Se non ti accorgi nell’esperienza che Lui è presente, ti accontenti delle briciole. Cioè dei valori. Che poi, se ci pensi, sono valori entusiasmanti. Nulla come il cristianesimo risponde a tutti i fattori dell’umano. Sfiderei chiunque a dimostrare il contrario». Eppure, spiega, i valori non bastano. E lo capisci da una cosa: «Non sei soddisfatto affettivamente. Io mi accorsi che avevo confuso Cristo con ciò che facevo per Cristo solo alla fine della vita di Giussani. Quando mi sorpresi ad avere paura di lui».

Era il 2002, il giorno del suo ottantesimo compleanno. Wolfsgruber non ha avuto il coraggio di chiamarlo per fargli gli auguri. «Avevo vergogna, paura del suo giudizio. Temevo di essere misurato. Perché, in una compagnia guidata, quando uno poggia tutto su quello che fa, poi si deve assicurare anche l’approvazione di chi guida. Questo, tra l’altro, mi è chiaro ora. Allora non lo capii. Avrei dovuto allarmarmi: “Come? Mi trovo a temere la persona che più ho amato e che più di tutte ha amato me?”. Ha ragione Carrón quando dice di prendere sul serio i sintomi della nostra umanità…».

Rimpianti? «Sono felice di aver fatto tutto questo percorso. Ognuno ha i suoi tempi… C’è stato un momento, nel 1971, in cui mi è venuto il dubbio che l’esperienza del Gruppo Adulto fosse tutta una balla. Lì un amico mi disse: “Guarda che noi restiamo perché qui c’è Cristo presente”. Dunque già allora queste cose si dicevano. Ed erano in grado di tenere in piedi la nostra vita. Ma Cristo è sempre un oltre. Per altri non metto in dubbio che possa essere stato diverso, ma io senza volerlo, senza accorgermi, mi dimenticavo dell’origine». E ora? A 77 anni e una vita alle spalle? «Ho dato le dimissioni da tutte le cariche dei Memores Domini e ho iniziato a studiare l’inglese. Se Dio vorrà andrò in missione. Per il resto riconosco che Carrón è l’invenzione che lo Spirito Santo e don Giussani hanno pensato per il mio cammino. La mia certezza oggi è quella di Giovanni che sulla barca grida agli altri: “È il Signore!”».