La misericordia detta la strada

Julian Carrón, presidente della Fraternità di CL, racconta la sua visita nel carcere di Padova. E lo stupore per uomini cambiati dall’annuncio cristiano. Che sono «compagni» nel dramma del vivere (da Tracce, dicembre 2013)
Paola Bergamini

Entrare in un carcere è sempre un’esperienza che lascia una traccia. Si percepisce fisicamente la mancanza di libertà. «È vero», dice don Carrón a dieci giorni dal suo incontro con i detenuti del Due Palazzi. «Per questo stupisce ancora di più quello che mi hanno detto».

Cosa ti ha colpito?
La commozione nel sentirli raccontare che significato ha per loro l’incontro fatto. Francesco, ormai in libertà, è tornato per dire di essere il figlio prediletto. O Marino, che spiega che l’unica cosa che vale è come è stato guardato. E noi che a volte siamo incastrati nelle cose concrete della vita. Li ha cambiati l’essenzialità dell’annuncio cristiano, come ripete papa Francesco. È la stessa cosa che ho visto di recente nelle donne malate di Aids della Rose, a Kampala, che non prendevano le medicine. Non gli importava vivere. Si stavano lasciando andare. Per noi è inconcepibile. Fino a quando sono state guardate da Rose. In quel momento hanno scoperto il valore della loro vita e che quindi valeva la pena curarsi prendendo le medicine. Quando ti trovi davanti a fatti come questi si capovolge la modalità con cui guardi la vita. Dice cosa attende davvero un uomo.

L’unica possibilità di avere pace anche dentro il male commesso.
In questo senso scontare la pena non basta mai. Non puoi ricostruire ciò che è distrutto. Occorre, come diceva don Giussani, un oltre che si è reso presente come misericordia. Solo questo può dare pace, anche in un luogo come il carcere. Non è uno sforzo tuo, ma un Altro che si piega.

Hai detto loro: «Siamo compagni di strada».
Il dramma del vivere è lo stesso. In questo siamo compagni. Possiamo testimoniarci vicendevolmente che non siamo ridotti ai fattori antecedenti o a quello che abbiamo fatto nel passato. Non siamo schiavi del nostro male perché c’è sempre la possibilità della domanda di Gesù: «Mi ami?». Non il rimprovero per il male commesso. La lotta è lasciare entrare quello sguardo buono o diventare noi la misura.

È il miracolo del cambiamento.
Lì visibile. Come diceva Giussani, che ci sia una cosa così è già un miracolo. Ma quante volte Nicola e gli altri avranno avuto la tentazione di mollare tutto. La fatica di dover ricominciare. Lo scoraggiamento dei carcerati nel dire: «Io non cambierò mai». E invece la misericordia di Dio detta la strada. I miracoli sono i paletti che te la fanno vedere. Per questo ne abbiamo così bisogno.