La cena nel salone della parrocchia di San Giuseppe al Porto di Rimini

Rimini. Sorpresi dallo stesso cuore

Oltre 300 invitati ad ascoltare le storie di Antonio, Adriano, Serge... La cena della "caritativa" organizzata dei volontari di CL che frequentano la comunità Papa Giovanni XXIII, dove detenuti e disabili vivono insieme

Antonio era un trafficante internazionale di droga. Imprenditore di facciata, con una doppia vita, una doppia identità e carte di credito con disponibilità quasi illimitate. La sera di sabato 3 febbraio, dopo essere uscito di prigione per rientrare in comunità, raccontava la sua storia da un palco scalcagnato di una parrocchia riminese, tenendo per mano Nicolò, ragazzotto autistico ospitato nella stessa sua casa della comunità Papa Giovanni XXIII, con una commovente tenerezza: «Dopo questi trenta mesi di detenzione alternativa, ho scoperto che le mie risorse più grandi sono il mio “io” e la mia “fragilità”. Sono diventati il mio punto di ripartenza, in un desiderio di bene che ho sempre soffocato e che ora è invece esploso».

Davanti a loro, 350 invitati ad una cena-incontro organizzata dai volontari di Comunione e Liberazione di Rimini, che da alcuni anni fanno caritativa alla Papa Giovanni XXIII, una “Comunità Educante con i Carcerati” (CEC). Parliamo di case di accoglienza autogestite dove vengono ospitati detenuti in attesa di giudizio o condannati che stanno scontando la loro pena come misura alternativa al carcere concessa da giudici di sorveglianza o, ancora, come domicilio per gli arresti domiciliari. Tutto senza cancelli né chiavi, sul modello delle APAC brasiliane, da cui trovano ispirazione.

Quest’opera, nata dal cuore insaziabile di don Oreste Benzi, negli anni ha dato - e continua a farlo oggi - la possibilità a centinaia di carcerati (qui si chiamano “recuperandi”) di rincontrare se stessi, in un faticoso percorso di riabilitazione e riconciliazione, dove la valorizzazione e la responsabilizzazione di ognuno giocano un ruolo fondamentale. Allo stesso tempo, frequentare la Papa Giovanni XXIII non smette di regalare la possibilità a noi volontari di guardare al fondo noi stessi, facendoci scoprire nudi e impotenti nel desiderio di aiutare questi uomini, spesso solo un po' più sfortunati di noi, ma dal cuore grande e ferito, come e più del nostro.

Così, alla cena del 3 febbraio, nel salone della cripta di San Giuseppe al Porto di Rimini, seduti ad ogni tavolo, accanto agli invitati erano presenti un carcerato e un volontario. Lo scopo? Permettere a ciascuno di incontrare una delle decine di storie di vita presenti fatte di delitti, denaro, successo, drammi, violenze… E poi l’arresto, il carcere e, infine, l’incontro con “qualcuno” dentro al CEC. Gente come Antonio, appunto, che si alterna anche sul palco a raccontarsi. Adriano, per esempio, ventitreenne albanese: nato in Italia, a 15 anni conosce il padre boss della mafia albanese che viveva in clandestinità e che diventa per lui modello da emulare, sognando di diventare l’Al Pacino di Scarface. Una parabola di reati, guadagni facili e gloria, fino al carcere. Oggi descrive il suo percorso, da aspirante boss a «uomo felice di accompagnare in bagno Marino», handicappato grave, l’amico che assiste all’interno della comunità. C’è anche Serge, arrivato in Europa dalla Costa d’Avorio clandestino e senza documenti, finito nelle carceri italiane per vari reati. Poco tempo fa ha scritto a un volontario: «Ho scoperto che la sofferenza può essere buona e può aiutarti a trovare il tuo destino». Storia diversa ma stesso finale per Icham, marocchino, partito dalla “bella vita” che faceva trafficando droga e arrivato al carcere. E alla comunità: «Per non tornare a quella vita facile ma criminale, devo trovare un bene, una “bella vita” ancora più bella. E adesso so che c’è!».

Giorgio Pieri, responsabile dell’opera, ha invitato tutti i presenti a fare domande “pungenti” al “delinquente” che era seduto al proprio tavolo. Delinquente: una parola che in altri contesti sarebbe stonata, fuori luogo, ma che quella sera ha invece aiutato a spezzare barriere e scetticismi. Come ha fatto anche il Vescovo di Rimini, monsignor Nicolò Anselmi, presente alla cena. Ha esordito spiegando che all’origine della nostra fede giudaico-cristiana ci sono “delinquenti” di prima categoria: Mosè, che ha assassinato un egiziano perché maltrattava uno schiavo ebreo, o il re Davide, ugualmente assassino e adultero… Eppure proprio loro sono stati scelti da Dio per guidare il suo popolo.

Nell’anonimato, alla serata erano presenti diversi magistrati e avvocati, curiosi di vedere e ascoltare qualcosa di nuovo: in tanti alla fine hanno espresso la gratitudine per essere stati invitati a una così preziosa e rara occasione di entrare in rapporto con un mondo a loro ben noto, ma con un’altra prospettiva.

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Nei giorni successivi molte persone hanno inviato messaggi di ringraziamento e di commozione, colpite da un’inaspettata familiarità con quegli uomini bisognosi solo di essere guardati e amati, come ognuno di noi, in fondo, desidera. Facendo i volontari sperimentiamo spesso l’accorgerci che noi - quelli “bravi”, incensurati - e loro - i galeotti - siamo accumunati dall’essere alla perenne ricerca di chi può realizzare la nostra vita, riconoscendo come tutto, anche le situazioni e le storie peggiori, sia fatto per noi, per la nostra felicità, per compiere il nostro destino.

«L’uomo non è il suo errore». Questa frase di don Benzi campeggia sulle pareti delle case della Comunità e ricorda ad ognuno di noi che siamo tutti mendicanti della misericordia di un Altro. E che questo può capitare anche dentro lo sguardo di uno sconosciuto, durante un singolo breve colloquio, come accade a questa gente, ma che forse porterà frutto in tempi e modi inimmaginabili.
Massimo, Rimini