Pesaro, la prova aperta della BAT (Foto Antonella Marchionni)

Pesaro. «La parola di Testori e la mia ferita»

Un gruppo di giovani attori alle prese con i testi dello scrittore di Novate. Un progetto di sei mesi e, nelle ultime settimane, accessibile al pubblico. Un’insegnante ha portato i suoi alunni a vedere le "prove aperte"

Ho partecipato alle celebrazioni del Festival Testoriano della parola, inizialmente senza particolari slanci, più per amicizia e stima nei confronti dei promotori, Gilberto Santini (direttore di AMAT Marche) e Giuseppe Frangi (presidente dell’Associazione Testori), che per motivazione personale. Ma insperato è stato quanto mi è accaduto. Per la prima volta ho coinvolto una mia classe, che conosco da pochi mesi, a scatola chiusa. Avremmo partecipato alla BAT, Bottega Amletica Testoriana, che non sapevo bene cosa fosse, ma c’erano margini ragionevoli per fidarsi: il regista Antonio Latella che si coinvolgeva con otto giovani attori che conoscevano a menadito i tre Amleti di Testori.

Il nostro primo pomeriggio BAT è stato uno shock: entrati in punta di piedi in una platea illuminata, io e i miei alunni ci siamo trovati a essere protagonisti e non spettatori, coinvolti con garbo, ma senza vie di fuga fino alle domande che ci siamo sentiti di porre liberamente al regista e agli attori. Quello che mi ha colpito è che dopo quel primo pomeriggio tutti avevamo il desiderio di ritornare in quello strano luogo. Perché era così attrattivo? Certamente per uno sguardo diverso del maestro verso gli allievi: Antonio Latella, svestendosi del suo ruolo, non conduceva “da regista”, ma suggeriva “da pedagogo”, aspettando il passo dell’allievo che sbocciava in un “compito”, una sorta di lavoro-studio personale, generosamente condiviso con noi spettatori-attori.

L’attenzione, carica di attesa, per quello che accadeva lì, ci ha reso profondamente protagonisti. Il fatto che non ci sarebbe stata la rappresentazione finale, ci ha permesso di cogliere che lo spettacolo non era il “dopo”, ma il “come”, lo studio, il processo, l’“adesso”. Lo diciamo spesso che il viaggio è più importante della mèta, ma non abbiamo mai il coraggio di viverlo. Se lo vivi, ti accorgi che è veramente importante tutto il percorso per crescere, anche la stanchezza, anche quello che eviteresti, come la distrazione del cellulare in cui alcuni miei alunni sono scivolati in quel primo pomeriggio di bottega. Mi è servito il modo in cui Latella li ha richiamati: «Sappiate che a luci accese quello che fate è sotto gli occhi di tutti perché siete attori anche voi. Avete una grande responsabilità». Sfidati da uomini, quei ragazzi sono voluti ritornare il giorno dopo, cambiando anche loro, come i giovani attori sul palco, per uno sguardo di verità e amore.

D’altronde era quello che Testori, già a 19 anni nel dramma La morte (rappresentato per la prima volta a Pesaro), desiderava: un pubblico attivo, che interagisse con lui. Ma noi siamo stati veramente protagonisti perché la vera protagonista era lei: la parola testoriana che, non blindata in uno spettacolo “finito”, continuava a muoversi, a muovere, a dialogare nei cuori commossi e negli sguardi diversi in classe il giorno dopo. La domanda più abitata dai miei alunni riguardava la timidezza: come fanno a vincerla quei giovani attori che non hanno paura di mettersi a nudo, anche letteralmente? E intanto anche a loro capitava di aprirsi, mostrando una debolezza o una passione, come quando una mia alunna, scendendo dalle scale del palcoscenico, mi ha confidato il segreto di aver scritto un romanzo fantasy.

Impossibile difendersi dalla nudità della parola testoriana. Anche io ne sono stata trafitta. Un giorno un’attrice nel “suo compito” si è chiesta come mai Testori, così agguerrito nelle domande, non avesse posto in nessuno dei suoi tre Amleti il famoso dilemma shakespeariano «essere o non essere?». Le ha risposto, il giorno dopo, Latella, dicendo che per Testori «tu sei, tu esisti, punto». Così Testori non elimina, ma sposta la domanda che diventa: «Come stare al mondo?». Ho visto in Testori un “come” vivere che mi ha molto interrogato: il desiderio di ritornare nel ventre materno è un voler andare dentro, in profondità, nel luogo dell’origine, di chi ci ha generati. E quel luogo è anche la Chiesa, dopo la riscoperta nello scrittore milanese della fede, non è solo riconosciuto e amato, è anche interrogato: come ne L’interrogatorio a Maria, è la casa in cui porre la domanda più spregiudicata, è il legame certo, ma non dato per scontato, con una donna, Maria, che può essere anche bombardata di indiscrezioni e messa alla prova.

Con Testori ho visto un uomo scomodo e tremendamente necessario: un uomo che, incontrato il senso, continua ad indagarlo con le sue domande. Non smette di fare a pugni con la Verità, pur amandola, proprio perché amata, come se questa rendesse la domanda più scatenata, più disinibita, più bambina, più nuda in un processo che non dà tregua per cui a lei, alla signora domanda, spetta lo scettro e l’ultima parola. E la Bottega lo esprime in modo emblematico perché ti lascia con una ferita e ti chiede di guardarla, di andarci dentro. Accade dentro: dentro quella casa e dentro di noi. È lì il vero spettacolo e l’essere veramente protagonisti. Un dentro che mi ha segnato in modo indelebile: l’altro mi lancia una provocazione, ma io sono disponibile ad abitarla finché lei non mi genera di nuovo alla vita? Io invece sono tutta proiettata sul fuori, sulla fretta dell’uscita, senza essere fatta rinascere da una novità.

In quella casa si può esprimere tutta la propria umanità misera, oscena, irregolare. Si scatena nel dramma testoriano Sdisoré: rabbia, vendetta, istinto, cioè umano senza Cristo, da cui improvvisamente sale una parola sconosciuta al mondo greco, perdono, quel per-don-don, trasportato dalle campane delle chiese milanesi. La si può guardare tutta la propria bassezza umana perché perdonata. Quell’unità e quel perdono, che vengono da Cristo, non chiudono: ci permettono di guardare i nostri pezzi scomposti, e di amare le nostre ferite irrisolte in un processo continuo che non può essere bloccato dal calare del sipario. È questo essere veramente protagonisti: togliersi la maschera (come accade ad un certo punto in Sdisoré), non esibirsi, ma lasciarsi trapassare dalla domanda, germe di nuove domande.

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Nel bellissimo incontro su Testori giornalista mi sono sentita descritta da un’immagine che ci ha consegnato uno dei quattro illustri relatori: l’asino dagli occhi umidi e dalle orecchie enormi perché affamato di conoscenza. Dopo questo viaggio con Testori, come quell’asino, sento esplodere in me solo domande, come se nascessi la prima volta e, da bambina, scorgessi tutto nuovo e promettente. Ed è una gioia immensa.
Paola, Pesaro