Marco Maltoni (Archivio Meeting)

«Fare i conti con il dolore»

Il caso della donna triestina che si è somministrata il farmaco per il suicidio assistito. Ne abbiamo parlato con Marco Maltoni, oncologo ed ematologo, che dirige l’Unità Cure Palliative della Romagna e insegna Cure palliative all’Università di Bologna
Giorgio Paolucci

Solo dentro una relazione, anche il dolore può essere affrontato. Di fronte alla vicenda di “Anna” - il nome di fantasia dato alla donna di 55 anni che pochi giorni fa a Trieste si è somministrata il farmaco per il suicidio assistito - chi da vent’anni lavora al fianco dei malati terminali prova una reazione di pudore e di sgomento, e insieme cerca le ragioni di un’ultima irriducibilità alla logica che presiede il darsi la morte.

Marco Maltoni, oncologo ed ematologo, dirige l’Unità Cure Palliative della Romagna e insegna Cure palliative all’Università di Bologna. La premessa: «Non conosco nel dettaglio il percorso che ha portato la donna a una decisione così radicale e non mi addentro negli aspetti giuridici della vicenda. Ci sono migliaia di persone che in Italia vivono in uno stato di malattia inguaribile evolutiva e in situazioni di dolore avvertite come intollerabili. Per affrontare queste sofferenze bisogna contare su un bravo neurologo, un bravo medico curante, fino a intercettare uno specialista di medicina palliativa, e poter accedere alle molte risorse che la medicina mette a disposizione. Ma questo non garantisce l’azzeramento del dolore. Quando una persona si trova in una situazione che non ha scelto subentra una sofferenza più ampia, quella che Cicely Saunders, la fondatrice del movimento moderno hospice, chiamava “il dolore totale”. Capita così che un paziente a cui chiedo cosa gli fa male, risponda: “Mi fa male tutto”. Parole che rivelano un’angoscia psico-esistenziale: si fa fatica a stare davanti a quella condizione. È una reazione spontanea a una situazione che si vive senza averla scelta, per questo la persona malata è chiamata a “spostarsi” dalla reazione immediata e istintiva di totale rifiuto per iniziare un percorso di conoscenza. E anziché chiudersi in se stessa, come spesso accade, può incontrare una proposta di accompagnamento, che etimologicamente significa prendere qualcuno come cum panio, cioè colui che mangia il pane con un altro. Allora si possono vivere rapporti umani che aiutino a dare un senso alla circostanza in cui ci si trova. Invece troppo spesso queste persone fanno i conti con la mentalità dominante che presenta il diritto all’autodeterminazione come la posizione più adeguata».

È come trovarsi di fronte a un bivio: da una parte l’incontro con una compagnia umana, dall’altra una china scivolosa in cui, in nome di una libera decisione che in realtà è molto condizionata dalla fragilità che si sta vivendo, la persona si sente di fatto abbandonata e si percepisce come un peso per chi gli sta accanto e per la società. «In vent’anni qui a Forlì abbiamo avuto pazienti che avevano organizzato il viaggio in Svizzera per accedere all’eutanasia, ma dopo avere sperimentato alcune settimane l’hospice come “luogo di vita” sono arrivati a revocare la scelta iniziale. Per questo è fondamentale la relazione, con tutto il portato carnale che questa parola comporta. Come diceva Cicely Saunders: “La risposta al dolore non è una spiegazione, è una presenza”. Spesso invece il malato fa i conti con una solitudine derivata da due motivi coincidenti: da una parte la famiglia tende a chiudersi - magari per un malinteso senso del pudore -, dall’altra le persone che gravitavano attorno fanno un passo indietro. Il risultato è un aumento della sensazione di abbandono e di inutilità».

La dimensione della relazione e della vicinanza ha trovato in questi anni una espressione “sistematizzata” nella diffusione delle cure palliative praticate con l’assistenza domiciliare, nelle Rsa e negli hospice che oggi in Italia sono circa trecento, sei dei quali dedicati ai bambini, con la prospettiva di averne uno per ogni Regione. L’Oms le definisce come “la cura attiva globale di malati la cui patologia non risponde più a trattamenti volti alla guarigione o al controllo dell’evoluzione delle malattie (medicina curativa). Il controllo del dolore, di altri sintomi e degli aspetti psicologici, sociali e spirituali è di fondamentale importanza. Lo scopo delle cure palliative è il raggiungimento della miglior qualità di vita possibile per i malati e le loro famiglie”.
E la vera qualità di vita sempre possibile - osserva Maltoni - non è un’autonomia fisica, ma essere al centro di rapporti umani significativi. Dal 1999 le cure palliative sono inserite nel Servizio Sanitario Nazionale e dal 2017 nei livelli essenziali di assistenza, uscendo dall’orizzonte temporale del fine vita e allargandosi alle fasi precoci della malattia inguaribile ad evoluzione sfavorevole.

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Per stare davanti a circostanze così dolorose è necessaria la fede? «In un mondo in cui convivono malati e operatori sanitari credenti e non credenti, quella che la Saunders chiama “comune vulnerabile umanità” può diventare l’inizio di una ricerca di senso della vita. Anche un malato non credente può vivere quella dolorosa contingenza come l’avvio di un percorso che possa portare a una risposta che le dia significato. La porta d’ingresso è comune, attraversare la soglia fino al riconoscimento di una risposta è affidato alla libertà di ciascuno».

E il professor Maltoni, cosa ha imparato in questi anni al fianco di chi fa i conti con il dolore? «Ho imparato che il limite esiste. E che se sei dentro una storia di benevolenza, il limite non è qualcosa che si oppone all’espressione della tua umanità, ma può diventare un punto di apertura, una provocazione a stare davanti alle sfide di ogni giornata con una compagnia di persone che vince la tua solitudine. Solo una presenza permette di vivere una speranza».