Miguel Benasayag (©Isabella De Maddalena/opale.photo/Mondadori Portfolio)

La macchina del mondo

Gli sviluppi tecnologici che rivoluzionano la realtà quotidiana riaprono domande radicali: chi è l’uomo? Che ne è di lui dopo aver delegato molte funzioni al computer? Su "Tracce" di Febbraio risponde Miguel Benasayag, psicanalista e neurofisiologo
Stefano Filippi

Miguel Benasayag, argentino di nascita e francese di adozione, è psicanalista e neurofisiologo, lavora in particolare sui problemi dell’infanzia e dell’adolescenza e da anni studia i cambiamenti della rivoluzione digitale e il loro impatto sull’uomo. Il rischio che, con lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale, l’essere umano venga ridotto a una somma di funzioni è alto, dice. Ma «la vita dell’uomo è esistere, non funzionare come una macchina». Che cosa resta dell’uomo dopo avere delegato certe funzioni alle macchine? «Rimane tutto». Perché l’uomo è «irriducibile agli elementi e ai processi» di cui è fatto. E il transumanesimo che vagheggia un uomo privo di limiti? «Teorie deliranti».

L’impatto dell’Intelligenza artificiale è stato paragonato a quello della Rivoluzione industriale. Duecento anni fa l’automazione produttiva tolse all’uomo mansioni manuali, ora l’IA gli sottrae parte dell’attività intellettuale: scrive, analizza, decide al posto suo. Cos’è allora l’uomo? Non c’è il rischio di definirlo “per sottrazione”, come il residuo di ciò che resta dopo essersi messo nelle mani delle macchine?
Questa è la tentazione. Ma noi dobbiamo dire chi è l’uomo in positivo, non dopo che la macchina l’ha spogliato. Oggi l’essere umano è definito come una somma di moduli, di parti. È un punto di vista debole, originato da una concezione filosofica “modulare” che non considera la differenza fondamentale tra un aggregato e un organismo. Un aggregato è una somma di funzioni, l’organismo viceversa è un’entità unitaria e non si definisce semplicemente per il suo modo di funzionare. In biologia, in epistemologia, noi guardiamo alla definizione di Kant nella terza Critica, là dove dice che un organismo funziona “per” e “tramite” tutte le sue parti, che non sono concepibili da sole. Ogni parte di un organismo funziona in base a un doppio principio: secondo la propria natura, ma anche secondo la natura dell’intero organismo. Questo è il problema centrale, per me, della nostra epoca: la confusione tra ciò che è organico e ciò che è aggregato. Le macchine possono fare un sacco di cose, possono affascinare o fare paura. Ma il problema di fondo è ricomprendere la differenza tra organismo e artefatto, la singolarità particolare del vivente.

L’unitarietà dell’uomo, il suo vero “io”.
L’uomo è un essere unitario, irriducibile agli elementi e ai processi da cui è composto, che però non è concepibile in modo autonomo. Un organismo partecipa alla vita in quanto ha relazioni e appartiene a una specie che dura nel tempo. Io lavoro con il concetto di “campo biologico”, cioè un’interazione permanente tra esseri viventi.

Refik Anadol, ''Quantum Memories'', 2020, National Gallery of Victoria, Melbourne. Questa è una delle immagini esposte al Photo Vogue Festival 2023 dal titolo: ''What make us human? Image in the age of A.I.''

Le piace la parola “intelligenza” per quella che ormai chiamiamo “intelligenza artificiale”?
Non tanto. La macchina non è intelligente in sé: può prevedere, calcolare, fare un sacco di operazioni, ma l’intelligenza per il vivente – non solo per l’essere umano – è sempre una questione di integrazione tra il cervello e la realtà, non appena la capacità di fare calcoli buoni. La razionalità dell’Intelligenza artificiale è molto povera. Per esempio, non può accettare la negatività inerente alla vita, o il fatto che i corpi sono desideranti, sono sottomessi alle pulsioni, non agiscono in modo sempre positivo. Già trent’anni fa, quando cominciai con questi studi, scrissi che parlavamo troppo di “intelligenza” relativa alle macchine, e questo avrebbe avuto conseguenze negative.

Come la chiamerebbe?
Sono artefatti interessanti. Macchine. Viceversa, a forza di parlare di intelligenza e vita artificiale, oggi abbiamo una concezione artificiale della vita biologica. Il discorso è stato capovolto. Nel mio campo di ricerca, la maggioranza dice che tra l’intelligenza e la vita artificiale e quella biologica e culturale c’è un’identità di natura mentre la differenza è solo quantitativa. Io dico l’opposto, cioè che c’è una differenza qualitativa, ma questo è molto difficile da affermare nel campo scientifico, dove si ragiona solo in termini di misurabilità, e quelli come me sono considerati come idealisti, “vitalisti”, che vogliono inserire un elemento non scientifico nella definizione della vita.

Nei suoi studi lei ha sempre fatto un elogio del limite. L’uomo può sbagliare e ha il senso del suo limite, la macchina no.
È così. Per me il limite non ha un’accezione negativa: è quello che definisce il mio modo di essere nel mondo. Siamo limitati perché abbiamo punti di vista, affetti, responsabilità. Al contrario, è antiscientifico programmare una macchina con qualche limite: la macchina non deve averne perché deve sempre funzionare perfettamente. Invece, l’essere umano, e più in generale l’essere vivente, è definito dal suo limite, il quale non è un confine che gli impedisce di vivere, ma la condizione della vita.

Una vita senza limite è il mito del mondo contemporaneo.
Sembra incredibile, ma tutte queste deliranti teorie transumanistiche, che parlano di una vita senza limite, hanno veramente un ascolto vastissimo. L’idea che i limiti sono arbitrari, che l’essere umano non ha nessuna ragione per accettarli, è una pazzia assoluta.

Come si spiega il successo di queste teorie?
La vita quotidiana ne è intrisa. La rimozione del limite è alla base, per esempio, del neoliberalismo che vuole deregolare e deterritorializzare tutto.

Deterritorializzare?
Per esempio, a me piace mangiare i frutti di stagione del mio territorio. Ma c’è chi vuole quei frutti tutto l’anno ed è disposto a farli arrivare dall’estero, oppure impiegare enormi quantità di acqua per coltivarli in località inadatte ma più vicine. Tuttavia, se io dico che questo ha poco senso, che la vita è fatta di cicli, di ritmi e anche di riti, non ho spazio nella postmodernità. Sono considerato un oscurantista perché voglio porre dei limiti. La deterritorializzazione parte dall’idea che l’essere umano non deve accettare nessun limite. E questo è suicidario.

L’uomo di oggi rifiuta i limiti anche perché non riconosce più di essere stato creato?
L’uomo si ritiene fatto come una macchina. È un creazionismo di plastica. Perché subire il limite dell’organicità? Questa domanda, trent’anni fa, la facevano solamente gli psicotici e i servizi di psichiatria: perché devo accettare il limite, perché devo accettare di morire? C’è un’opera teatrale molto divertente di Eugène Ionesco, Il re muore, in cui il protagonista malato non ammette di dover morire. Ionesco voleva burlarsi dell’individualismo occidentale, ma oggi il sentire comune è questo: i limiti sono confini arbitrari. E abbiamo per le mani una potenza enorme, fantastica, ma siccome non sappiamo addomesticarla, per il momento essa provoca cambiamenti che non padroneggiamo.

Che cosa intende?
Lei paragonava le macchine alla Rivoluzione industriale. Io le comparo piuttosto alla scoperta dell’agricoltura nel neolitico: la coltivazione intensiva inizialmente provocò la morte di un terzo dell’umanità dell’epoca con la deregolazione, la deforestazione, la peste, la tubercolosi. Noi siamo in una situazione simile: una rivoluzione potente di cui non abbiamo pieno controllo. Per gli antropologi siamo addirittura alla vigilia di una nuova grande estinzione. E il povero, piccolo uomo si trova veramente impaurito.

Le macchine vanno fermate?
Impossibile. Non si può guardare il futuro con un retrovisore. In realtà siamo già ibridati, anche se non ce ne rendiamo conto. Un’ibridazione non anatomica ma fisiologica, di funzionamento. Per esempio, ho lavorato anni per capire l’influenza degli apparecchi digitali sul cervello ed è stato facilissimo vedere come è cambiata la struttura cerebrale, fisiologicamente e anche anatomicamente, di chi delega alcune funzioni cerebrali al navigatore satellitare Gps.

Se alcune facoltà si perdono, ce ne sono altre che vengono migliorate?
Non è possibile. Il sistema nervoso centrale funziona così: delega alcune funzioni e ricicla la regione cerebrale liberata. Lo abbiamo visto quando fu inventata la scrittura e la parte del cervello fino ad allora dedicata all’attività mnemonica fu utilizzata per leggere e scrivere. Sono processi lentissimi, lunghi anche centinaia di anni. E oggi, con la velocità delle macchine, la neurofisiologia mostra che la delega di funzioni provoca un’atrofizzazione della regione cerebrale liberata. Nel caso dei navigatori satellitari, esistono nodi sottocorticali che si occupano di tempo e spazio, e quindi di cartografia: i nodi che delegano la funzione al Gps non hanno il tempo di riciclarsi per un’altra funzione e si atrofizzano, almeno per il momento.

Vuol dire che l’Intelligenza artificiale può provocare un’ottusità naturale?
Un indebolimento, certo. Lo vediamo anche nei bambini che passano molto tempo con i videogiochi o davanti a uno schermo. Non lo dico in modo tecnofobo, perché non sono tecnofobo, ma semplicemente perché non ne siamo coscienti. Non per niente i geni della Silicon Valley mandano i figli a scuola senza computer e fanno studiare loro latino e greco. La neurofisiologia dice che prima dei tre anni non dobbiamo mettere i bambini davanti agli schermi. Ma le famiglie non ne sono al corrente, soprattutto quelle che non hanno accesso alla cultura, o non hanno anche un minimo di disciplina.

Allora le macchine sono nostre nemiche?
No. Ma bisogna conoscerle e ristabilire un’alterità. La macchina è la macchina, il vivente è il vivente, e non va definito come ciò che resta dopo avere delegato certe funzioni alle macchine. Perdere questa distinzione è pericolosissimo perché mette sullo stesso piano uomo e artefatto. Ma la vita dell’uomo è esistere, non funzionare come una macchina. Che cosa resta dell’uomo dopo avere delegato certe funzioni alle macchine? Rimane tutto. Semplicemente dobbiamo imparare a esistere, coabitando con questa nuova potenza che, non avendone noi il pieno controllo, può essere pericolosa.

Qual è dunque il nostro compito?
Il problema ha due aspetti. La cosa fondamentale è capire che dobbiamo sapere identificare che cosa noi siamo, qual è la nostra singolarità, e che non possiamo definirla come residuo. Dobbiamo ritornare a una alterità: la differenza tra l’uomo e la macchina è radicale. Il secondo passo è riconquistare il terreno che abbiamo lasciato alla macchina. Ricordo spesso che l’invenzione dell’ascensore non ha tolto all’uomo la possibilità e il gusto di camminare. Meglio abbandonare l’idea un po’ stupida della felicità come comfort immobile, non far niente, essere serviti dai nuovi schiavi, cioè le macchine. Dobbiamo ritrovare un desiderio di felicità diverso da questa visione oziosa che riflette molto l’American way of life.

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Il rovescio della medaglia è che oggi spesso si viene misurati in base alla performance. La macchina corre e l’uomo deve stare al passo.
L’estetica attuale è di diventare una macchina sempre più performante. Dunque, la felicità sarebbe da un lato non fare niente mentre la macchina fa tutto, e dall’altro funzionare come una macchina perdendo anche le angosce legate all’esistere e alla ricerca di senso. È una resistenza attiva che dobbiamo avere tutti, non contro la macchina ma contro la stupidità.

Nel messaggio per la Giornata mondiale per la pace, papa Francesco dice che l’Intelligenza artificiale può amplificare le disuguaglianze. È d’accordo?
La macchina produce un mondo di calcoli, freddo, che non prevede la condivisione, dove chi è più forte rimane tale e gli altri restano esclusi. La statistica considera le medie, la massa, e taglia fuori chi è ai margini. Però queste minoranze nel mondo continuano ad aumentare. Credo che il Papa voglia mettere in guardia dal paradosso per cui si crede che le macchine siano al servizio di tutti mentre in realtà lavorano per chi le governa.